martedì 8 febbraio 2011

La rivoluzione russa

La mattina del 20 settembre 1871, il Maestro Franz Liszt si esercitava al pianoforte nello studio della sua sontuosa magione di campagna vicino Budapest, quando fu interrotto da un confuso e concitato vociare proveniente dal portone d'ingresso.

"Che succede, Pierre?" chiese mentre raggiungeva il suo maggiordomo, il quale, bloccando con il suo corpo l'accesso alla casa, stava palesemente cercando di convincere un ospite indesiderato ad andarsene.

Quando Liszt, avvicinatosi dietro le spalle del suo domestico, poté scorgere l'aspetto dell'intruso (un uomo sui sessant'anni, calvo, barbuto, che sembrava assai malmesso, ma parlava un francese forbito con marcato accento parigino), quest'ultimo troncò subito, lasciando una frase a metà, il suo litigio con Pierre e, volgendo speranzoso lo sguardo al padrone di casa, così lo apostrofò:

"Maestro Liszt! Maestro! Vi prego, degnatevi di concedere udienza ad un vostro grande ammiratore, giunto or ora dalla Francia solo per avere l'inestimabile onore di fare la Vostra conoscenza!"

"Padrone!" diceva intanto il maggiordomo, "lasciate che cacci via a calci nel sedere questo vagabondo che pretende di farsi ricevere da Voi! E' inaudito! Come se qualsiasi pitocco potesse..."

"Va bene, Pierre, lascia pure entrare Monsieur... di grazia, come vi chiamate?"

Il viso dello strano ospite si rasserenò. "Mi chiamo Eugène Pottier. Da Parigi. Poeta. Per servirvi. Sapevo che avreste... oh, grazie, mille grazie, Maestro!"

"Potete chiamarmi semplicemente Padre. Come forse saprete, non sono che un umile servitore di Santa Romana Chiesa... Ma accomodatevi nel mio studio, ve ne prego, e raccontatemi di voi..." diceva Liszt mentre accompagnava il suo ammiratore lungo il corridoio. "Venite da Parigi, avete detto?", qui il musicista scoccò uno sguardo sospettoso sul suo interlocutore. "E dove siete diretto, se posso..."

Mentre Liszt tornava a sedersi al suo pianoforte, Pottier si accomodò su un'ampia poltrona disposta in modo da fronteggiare il lato destro dello strumento. Come in una sala da concerto, pensò Pottier un po' a disagio. "Maestro, cioè scusatemi, Padre. Avete già capito. Sono un combattente della Comune. Sono in esilio, ramingo per l'Europa, da ormai quattro mesi. Ma non voglio annoiarvi con il racconto delle mie tribolazioni. Sono venuto qui, attratto dalla vostra fama di grande artista e di uomo già attento alla questione sociale, perché ho un testo, da me composto, che vorrei chiedervi di porre in musica".

Ci furono alcuni secondi di silenzio, durante i quali le palpebre di Liszt si aprirono e si chiusero spasmodicamente per una ventina di volte. "Monsieur Pottier... vi rendete conto, spero, del rischio a cui state esponendo voi stesso e me. Mi è difficile comprendere come siate potuto giungere fin qui dalla Francia. Ma, che la vostra sia stata fortuna o incoscienza, sappiate che la polizia asburgica non è affatto indulgente con quelli come voi, né con chi dà loro rifugio."

Pottier si raddrizzò sulla poltrona. "Né fortuna, né incoscienza, Monsieur Liszt. Siamo stati sconfitti, è vero. Ma abbiamo compagni ovunque, pronti a dare il loro silenzioso contributo alla Causa. E' grazie alla loro solidarietà che sono riuscito a sopravvivere e ad arrivare a voi. La musica che porto con me" - a questo punto Pottier tirò fuori da una tasca della giacca un fascicolo spiegazzato, ingiallito e sgualcito, e lo tese a Liszt - "mi induce a confidare anche nella vostra solidarietà".

Sempre più stupito, ma senza offuscare la politezza dei suoi modi da gentiluomo, il musicista prese l'opuscolo che lo strano visitatore gli porgeva. Era uno spartito a stampa che recava sopra il pentagramma il titolo Lyon e il motto: Vivre en travaillant, ou mourir en combattant. Che si potrebbe tradurre, a un dipresso: Vivere del proprio lavoro, o morire combattendo.

"Dove l'avete trovata?" chiese subito Liszt. "Questa composizione non fa più parte della raccolta delle mie opere. Non viene più ristampata da..."

"Dal 1837" lo interruppe Pottier. "Me la regalò mio padre, il giorno del mio ventunesimo compleanno. Mi spiegò che un grande musicista l'aveva composta per celebrare il ricordo della rivolta degli operai disoccupati di Lione. Mi disse: se vuoi davvero fare l'artista, prendi esempio, figlio mio, e ricordati sempre da quale parte della barricata devi stare!"

Liszt guardò fisso il suo ospite, che ricambiava lo sguardo con fermezza. Poi sospirò. "Monsieur Pottier, i tempi sono cambiati. Persino quella testa calda del mio amico Wagner se n'è reso conto, ed è passato (come direste voi) dall'altra parte della barricata. L'epoca delle rivoluzioni è finita. Per sempre. Anche voialtri, col vostro folle tentativo laggiù in Francia, lo avete dimostrato. Datemi retta: la vostra cosiddetta questione sociale non ha alcuna soluzione. Non su questa terra, almeno. La sola cosa che posso fare per voi è scrivere due righe al priore del convento francescano che si trova a una lega da qui. E' mio amico. Vi darà ricetto e ospitalità, fino al giorno in cui Dio, nella Sua infinita misericordia, illuminerà la vostra mente, come già fece con la mia. Allora anche voi comprenderete, e vi rassegnerete alla Sua volontà".

Pottier rimase in silenzio. Poi fece per rimettere in tasca l'altro foglio di carta che ne aveva tratto poco prima e che stava per consegnare al grande musicista. Ma gli tremava la mano e, senza che lui se ne accorgesse, il foglio cadde per terra. Infine disse: "Bene, Monsieur Liszt. Vi chiedo scusa per l'incomodo e per il rischio che vi ho fatto correre. Mi ero sbagliato sul vostro conto. Ora non vi importunerò ulteriormente e, col vostro permesso, riprenderò il mio viaggio."

Stava per uscire senz'altro dallo studio di Liszt, ma quest'ultimo lo richiamo: "Aspettate, Monsieur Pottier. Non fatemi il torto di rifiutare la mia ospitalità, almeno sino a domattina... Tra poco sarà servita la colazione. Frattanto, accomodatevi, e siate così gentile da attendere che abbia finito i miei esercizi. Fra l'altro, suono meglio quando ho un pubblico ad ascoltarmi. Posso chiedervi inoltre, nuovamente, qual è la meta del vostro viaggio?"

Eugène Pottier si risedette. "Credo che andrò in Russia. C'è molto lavoro da fare, laggiù".

"In Russia!?" esclamò Liszt. Stava per aggiungere: voi siete pazzo, ma si trattenne. "Voi non sapete quel che dite! Ogni giorno, ogni giorno lo Zar incarcera, spedisce in Siberia o manda sul patibolo gente come voi! Ecco, guardate" - Liszt prese in fretta dallo scrittoio una rivista - "guardate questo giornale che mi è arrivato ieri da San Pietroburgo. Sapete leggere il cirillico? Ecco l'elenco dei terroristi che sono stati impiccati il mese scorso per avere cospirato contro la monarchia: Rodion Raskolnikov, Nikolaj Stavrogin, Aleksandr Uljanov... Va avanti per un'intera pagina! E voi volete andare in Russia?"

Pottier ribatté con calma: "Terroristi, avete detto? Uhm... no, non è questa la strada. Noi vinceremo, ma seguendo un altro cammino."

"Ah, sì? E quale, se mi è concesso chiederlo?

"Non lo so. Forse la strada non c'è. Ma so che c'è da camminare".

Liszt sospirò. Guardò Pottier. Poi guardò il giornale russo. Poi guardò il suo pianoforte. Infine ci si sedette e, senza dire niente, attaccò a suonarlo.

Suonava già da un quarto d'ora, e le tortuose armonie della Sonata in si minore si dipanavano con sicurezza sotto le sue dita, come un filo di lana in un labirinto, quando Liszt sentì un suono inconfondibile provenire dalla poltrona del poeta. Liszt portò a termine l'esecuzione della Sonata, poi si alzò dal pianoforte e risistemò delicatamente il poggiatesta imbottito sotto la tempia di Pottier. Quest'ultimo smise di russare, ma non si svegliò. Poi il musicista si chinò a raccogliere il foglio di carta che era caduto dalla tasca di Pottier. Si risedé al pianoforte e lo lesse. Era scritto in versi e iniziava così:

"Debout, les damnés de la terre
Debout, les forçats de la faim!
La raison tonne en son cratère
C'est l'éruption de la fin.
Du passé faisons table rase.
Foules, esclaves, debout, debout!
Le monde va changer de base.
Nous ne sommes rien, soyons tout!"


Il poema andava avanti su questo tono per un'altra decina di strofe. Liszt lo lesse con attenzione. Poi sbuffò forte col naso, mise il foglio da parte e si rimise al piano. Attaccò a suonare una sua composizione che s'intitolava Funérailles. Si interruppe dopo poche battute. Poi, per la prima volta dopo decenni, dalla cassa armonica rintoccarono le possenti note iniziali di Lyon. Ma anche questa esecuzione fu lasciata a metà.

Liszt si prese la faccia tra le mani. Cosa gli stava succedendo?

Infine il musicista sembrò distendersi. Riprese in mano il foglio con la poesia di Pottier e lo pose sul leggìo. Iniziò ad improvvisare. Si udì una melodia piuttosto bella, allo stesso tempo vivace e solenne, in ritmo giambico. (Molto tempo dopo, qualcuno l'avrebbe descritta come una via di mezzo fra Oh, my darling Clementine e La cucaracha).

Subito iniziò a variare. Mentre un ritmo lento, profondo e pauroso rombava nella parte sinistra della tastiera, la melodia si trasformò in un canto popolare slavo che sembrava provenire dall'inizio dei tempi.
Poi il ritmo si fece più veloce, incalzante e sincopato, come di tamburi africani, mentre la melodia, stranamente deformata in semitoni, diede l'allucinante impressione di provenire non più da un pianoforte, ma da una tromba con sordina, o da qualche altro strano strumento a fiato non ancora inventato.

Poi ancora la stessa melodia, resa esile, sottile e tintinnante, si stagliò nelle zone alte della tastiera, sullo sfondo di colpi molto distanziati, come di un gong, che provenivano dalla mano sinistra. Senza soluzione di continuità, questo tintinnio si tramutò nel canto di un muezzin. Poi fu come se, prodigiosamente, tutte queste versioni della stessa identica melodia risuonassero insieme. Pottier, che nel frattempo si era svegliato, non credeva ai propri occhi. Le mani di Liszt si muovevano ad una velocità sovrumana, producendo una fittissima gragnuola di note di ogni altezza, che scemava e poi di nuovo s'intensificava, fino a scoppiare in un'onda di energia di terrificante violenza. Infine, mentre le ultime risonanze dell'esplosione ancora si dissolvevano, la melodia iniziale ritornò piano, semplice ed infantile, lenta, simile ad un carillon che suonasse una ninna-nanna.

La straordinaria esibizione di Liszt aveva intanto richiamato tutta la sua servitù, che si era raccolta ad ascoltare in un piccolo drappello dietro la porta dello studio: erano anni che non lo sentivano suonare a quel modo. Fra di loro, c'era una famigliola composta da una giovane coppia con la loro bambina di tre anni.

"Hai sentito, Sandor?" disse la moglie. "Tu dicevi che il vecchio si era ormai completamente rincitrullito..."

"Sì, Hannah, te lo confermo: il vecchio si è totalmente rimbecillito. Ma per sua fortuna, le mani ce le ha ancora buone. Vieni, Milena!" prese in braccio la sua figlioletta, "ascolta. Un giorno anche tu dovrai suonare così".

Pubblicato il 7 ottobre 2010, qui: http://www.evulon.net/news.php?extend.3549

1 commento:

  1. Aggiungo una postilla per chiarire alcuni riferimenti e per "autodenunciare" una serie di plagi e di mistificazioni presenti nel raccontino.

    Prima di tutto, il testo de "L'Internazionale" di Eugène Pottier si trova qui:

    http://it.wikipedia.org/wiki/L%27Internazionale_%28inno%29

    "Lyon" di Franz Liszt si può ascoltare qui:

    http://www.youtube.com/watch?v=gSP_WuTXpzU

    Ovviamente, l'incontro fra Liszt e Pottier non ebbe mai luogo: Pottier nel suo esilio si recò dapprima a Londra e poi negli Stati Uniti, senza mai passare dall'Ungheria, né tantomeno dalla Russia. D'altra parte, Liszt nel 1871 non risiedeva affatto in Ungheria. Il testo de "L'Internazionale" fu musicato non da Liszt, ma da Pierre Degeyter nel 1888.

    Raskolnikov e Stavrogin sono, naturalmente, i nomi di due personaggi di Dostojevsky (rispettivamente da "Delitto e castigo" e da "I demoni"). Aleksandr Uljanov era invece il fratello maggiore di Vladimir I. Uljanov, il quale ultimo divenne poi noto con il nome di battaglia Vladimir Lenin. Aleksandr Uljianov fu impiccato assieme ad altri rivoluzionari nel 1887 (e non nel 1871). La frase "noi vinceremo, ma seguendo un altro cammino", secondo la tradizione, fu pronunciata da Lenin, all'epoca diciassettenne, quando seppe la notizia.

    La descrizione della melodia dell'Internazionale come una via di mezzo tra "Clementine" e "La cucaracha" si trova nel romanzo "La fattoria degli animali" di George Orwell.

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