venerdì 25 febbraio 2011

Stella rossa sull'Europa

"Buongiorno, Anne. Buon anno".
"Buongiorno, Valentin. Buon anno anche a te. Novità?"
"Sì. Un nuovo arrivo. Sabato notte. Hai il colloquio già fissato per le undici. Trovi tutti i dettagli in agenda".
Anne Dupont, psicologa del Centro di Prima Accoglienza di Calais, entrò nel suo ufficio, accese il terminale e consultò la sua agenda elettronica.

Lunedì 5 gennaio 2011, ore 11,00. Colloquio con Monsieur Philip Brasser. Cittadino britannico. Età 38. Celibe. Operazione di salvataggio in mare, Canale della Manica, acque internazionali, 3 gennaio u.s. Condizioni fisiche buone. Non parla francese. Attribuzione provvisoria: codice blu.

Bene, pensò Anne. Un rifugiato politico. Iniziare l'anno nuovo con un codice blu era di buon auspicio. Il colloquio era di lì a due ore. Non c'erano altri impegni per la giornata. Completò con calma alcuni referti clinici iniziati la settimana precedente, fece una partita a Tetris, chattò con alcuni amici in Internet. Quando fu il momento, si aggiustò il make-up e si recò in sala colloqui.

Era una stanza non troppo ampia, arredata come un normale studio specialistico ma con qualche accorgimento per mettere gli ospiti a proprio agio: colori pastello, luci soffuse, lettino basso, comoda poltrona. Su quest'ultima, di fronte alla scrivania della dottoressa, era già seduto il signor Brasser.

"Good morning, Mr. Brasser. Prima di tutto, come sta?"
La domanda non era solo formale. L'uomo appariva molto provato. I tanti capelli bianchi, la pelle del viso magro solcata da numerose rughe, le profonde occhiaie dietro le lenti spesse, lo facevano sembrare più vecchio di dieci anni rispetto alla sua età anagrafica. Al posto degli abiti che indossava al momento del suo salvataggio, fradici e inservibili, gli avevano fornito un nuovo completo, che era tuttavia di due numeri più largo e accentuava la gracilità del suo fisico. Gli tremavano le mani.
Quegli scafisti maledetti, pensò Anne.
"Adesso sto meglio, grazie. Certo, suppongo che la notte passata all'addiaccio su quel canotto non abbia migliorato granché la mia cera. Ma ho fatto una buona dormita, qui da voi, e la vostra cucina è ottima". La sua voce era ferma, con una sfumatura d'ironia. "Solamente, non sono riuscito a procurarmi neppure una sigaretta, dottoressa..."
"Dupont. Ma può chiamarmi Anne. Temo che non ne troverà neppure in futuro. Nell'Unione non se ne producono più. Fino a qualche tempo fa, le importavamo dal suo paese".
"Oh, già, ora ricordo. Le esportazioni cessarono sei anni fa. Troppo pochi fumatori, qui da voi. Non c'era abbastanza profitto. Lo so perché all'epoca lavoravo in un'agenzia di rating".
"Lei è analista finanziario?"
Il signor Brasser rise. "No. Laureato in agraria. Da Troody's ero operatore al call center. Ogni grande compagnia ha il suo. E' la mansione che ho sempre svolto, durante tutta la mia carriera. Ho lavorato per almeno trenta società diverse, ogni volta per non più di sei mesi. Si imparano tante cose, sa?"
"Non ho dubbi. Ma veniamo al punto. Lei ha chiesto lo status di rifugiato politico. Data la sua provenienza, certamente la sua richiesta sarà accettata. Lei diventerà fra breve, a tutti gli effetti, cittadino dell'Unione delle Repubbliche Socialiste d'Europa. Già adesso, comunque, lei è libero di circolare in tutto il territorio dell'Unione, ed eventualmente anche di tornare da dove è venuto..."
"No grazie! Non ci tengo affatto".
"Dicevo per dire. In genere, qui da noi i rifugiati si integrano abbastanza in fretta. Tuttavia, non si può escludere che, all'inizio, lei si trovi un po' spaesato. Il nostro sistema sociale è molto diverso da quello da cui lei proviene. A sua richiesta, lei può fruire di adeguata assistenza psicologica e culturale, per superare eventuali difficoltà di adattamento. In questa fase iniziale, se vuole, mi consideri pure come suo referente".
"Oh. E quanto dura questa... fase iniziale?"
"Può finire anche subito, se crede. L'unico suo obbligo, se intende rimanere nell'Unione, è di iscriversi nelle liste di collocamento e nelle graduatorie per gli alloggi. Non credo che le sarà difficile trovare un lavoro e una casa. Se lei non ha esigenze particolari, penso che troverà una sistemazione accettabile nel giro di un paio di settimane. Fino ad allora, comunque, può rimanere qui, o spostarsi in una delle altre strutture di prima accoglienza nel territorio dell'Unione".
"Sembra magnifico. Dov'è la fregatura?"
"Ecco. Era proprio ciò che intendevo. Non c'è nessuna fregatura, per quanto lei sia abituato a pensare che debba per forza esserci. Non pretendo che lei mi creda. Presto se ne accorgerà da sé".

Non c'erano straordinari da fare, quel giorno. Alle tredici, Anne spense il computer, salutò i colleghi che arrivavano per il turno pomeridiano e, senza passare dalla mensa, prese l'elio-tram che, serpeggiando silenziosamente lungo la costa, la portò a casa sua in dieci minuti. Era una magnifica giornata di sole. Il mare era inusualmente calmo, in quei giorni. Una fortuna, per Brasser. Aveva evitato il triste destino di tanti boat-people che partivano clandestinamente dalla riva inglese ma non riuscivano a raggiungere i nostri mezzi di soccorso nelle acque internazionali.

Anne abitava da sola. Si preparò un leggero pranzo macrobiotico, poi un caffé d'orzo. Accese la radio; la spense. Si guardò nello specchio del soggiorno. Sorrise. Tutto sommato, si piaceva. Si chiese come sarebbe stato il suo sembiante, alla sua età, se anziché in Europa continentale fosse vissuta in quell'inferno che doveva essere Londra. I profughi le avevano raccontato storie orribili. Inquinamento, degrado. Se andava bene, orari lavorativi di dieci o dodici ore. Altrimenti, la disoccupazione, l'emarginazione e la pazzia. Oppure, per una ristretta minoranza, la ricchezza e il potere, ma a costo di rinunciare a qualsiasi barlume d'umanità. Un'altra forma di follia, in fondo.

Mercoledì 7 gennaio, ore 10,00. Secondo colloquio con Monsieur Brasser.

Quella mattina l'aspetto di Mr. Brasser era molto migliorato. Anne glielo disse.
"Grazie, Dottoressa. Lei è gentile quanto bella".
Anne Dupont ignorò il complimento.
"Se ho chiesto un nuovo colloquio" continuò Brasser, "non è per ottenere assistenza psicologica".
"Davvero? E perché, allora?"
"Ho due domande da porle".
"Le risponderò, se posso. Ma prima, permetta che le faccia io una domanda. Cosa sa, lei, dell'Unione?"
"Poco, in realtà. So che dapprima ci fu la Rivoluzione d'Ottobre, in Russia, nel 1917. Poi, tra il '18 e il '20, il capitalismo fu abbattuto in Germania, in Ungheria e in Italia. In rapida successione, tutte le colonie europee in Asia e in Africa conquistarono l'indipendenza. L'India nel 1925, la Cina nel '27, e così via. Poco dopo fu la volta dell'Algeria e del Marocco, e a quel punto la rivoluzione scoppiò anche in Francia e in Spagna. Alla fine degli anni '30, tutta l'Europa continentale era socialista.
Frattanto, il crollo di Wall Street nel 1929 aveva gettato l'America nella crisi più nera. Le elezioni presidenziali del 1940 furono vinte da Charles Lindbergh, un fanatico antisemita che instaurò negli U.S.A. una dittatura razzista, appoggiata dal grande capitale. Presto quel regime si circondò di una serie di stati-satellite che coprivano tutta l'America del Sud e del Nord.
Negli anni '80, quelle dittature iniziarono ad implodere, dapprima in America Latina e poi in Canada. Quando nel 1989 cadde il Muro di Tijuana, finalmente il capitalismo crollò negli stessi Stati Uniti. Da allora, secondo la nostra propaganda, il Regno Unito di Gran Bretagna è rimasto l'ultimo baluardo del libero mercato e della civiltà, contro la barbarie socialista che ha travolto tutto il resto del globo. Questo è quanto".
"Bene - disse la dottoressa - a parte la faccenda del baluardo, il quadro storico è corretto. Non le sarà stato facile ricostruirlo..."
"No, infatti. Da noi, formalmente, la cultura è libera, e ognuno può leggere ciò che vuole. Si possono prendere in prestito, nelle poche biblioteche rimaste, anche testi di Marx o di Lenin, e persino di Fabio Volo. Non è vietato. Di fatto, però, ci sono materie che non conviene approfondire troppo. Se si viene a sapere che lei fa certe letture e che ha determinate idee (e si viene a sapere sempre), non speri di trovare lavoro tanto facilmente. Io me la sono cavata con i call center, solo perché le mie origini non sono troppo umili. Quando avevo vent'anni, i miei riuscirono persino a mandarmi all'università. Certo, oggi non potrei più frequentarla. Da allora le rette sono decuplicate."
"Ah, lei ha letto Fabio Volo? Complimenti. Da noi, molti lo considerano un autore troppo difficile".
"Sì, è molto rigoroso e denso, ma se si ha tempo da dedicargli, è un pensatore affascinante. Le consiglio la Critica del tempo unidimensionale, se non l'ha ancora letta. A me ha aperto la mente. In realtà, uno dei motivi per cui mi sono deciso ad espatriare è che anche studiare per conto proprio da noi è diventato impossibile. Troppo costoso, da quando il dizionario è stato privatizzato".
"Il dizionario?"
"Sì. Tutti i sostantivi che iniziano per vocale appartengono alla Mircosoft. Quelli che iniziano per consonante sono del gruppo Murdogh. Gli avverbi sono di Merdaset, e così via. Per leggere o per usare comunque le parole bisogna pagare il noleggio ai legittimi proprietari. Quando lei scrive una e-mail, oppure quando chatta o quando telefona, un sistema di contatori automatici calcola la cifra e l'addebita sul suo conto. Ottimo sistema, fra l'altro, per controllare i contenuti della comunicazione. Io, per esempio, ho fatto quindici giorni di carcere per uso illecito di marchio registrato, la volta che in una mia mail ho scritto che la Cocca Colla mi faceva schifo".
"Senta, Mr. Brasser. Quali sono i suoi progetti? Cosa intende fare, ora che è venuto qui da noi?"
"Primo, togliermi una curiosità che mi ha tormentato a lungo. Ed è la prima delle due domande che volevo farle, si ricorda?"
La dottoressa Dupont sbuffò. "Va bene. Spari".
"La domanda è: perché non ci avete invaso? Come avete potuto lasciarci a mollo in quella fogna?"
Anne si appoggiò sullo schienale della sedia. "Beh, alcuni partiti in seno all'Internazionale erano per dichiarare guerra. Ma infine prevalse l'idea che il socialismo non può essere imposto con i carri armati. Se ci avessero attaccato, ci saremmo difesi. Per fortuna non accadde. Oggi, poi, molti sostengono che una pluralità di sistemi sociali diversi non è necessariamente un male. In India, in Giappone e in Sud America, dove la transizione al comunismo è molto avanzata, stanno già smantellando le strutture dello Stato, per sostituirle con vari tipi di organizzazione non statuale. In Europa e in Africa ci troviamo ancora nella fase socialista, in vari stadi di sviluppo a seconda dei territori. Forse è bene che ci siano delle zone dove ancora vige il capitalismo."
"Sarà un bene per voi, che ci osservate dall'esterno come se fossimo allo zoo! Ma per noi che siamo in gabbia è un altro discorso".
"Lei ora non è più in gabbia. Comunque, mi sembra che il suo atteggiamento nei confronti del suo paese d'origine sia un po' troppo negativo, non crede?"
"Mi dica lei cosa ci vede di bello, in quel letamaio", ribatté Brasser.
"Beh, che so... Avete una scena musicale molto vivace. Un sacco di gruppi pop, rock, punk, post-punk... Wim Wenders ci ha fatto anche un film. Poi, comunque, il vostro sistema ha ancora una base di consenso popolare".
"Si riferisce a West End London Social Club, vero? Quel film mi dà la nausea! Le televisioni del regime lo replicano senza tregua. L'unico film d'autore trasmesso in prima serata, e senza interruzioni pubblicitarie."
"Ecco, ad esempio - lo interruppe la dottoressa - Perché lei parla di televisioni di regime? Da voi ci sono sei o sette canali, se non sbaglio, tutti privati e in concorrenza fra loro..."
"... e trasmettono tutti le stesse schifezze. Non si distinguono l'uno dall'altro. Anne, lei non ha capito: da noi l'economia è allo sfascio, la società è in piena decadenza, la cultura è morta e sepolta. L'unica attività che va a gonfie vele è la manipolazione del consenso per mezzo dei mass-media. Quella è l'unica industria che non conosce crisi!"
"Non volevo farla arrabbiare. Si calmi. Lei ora è al sicuro. Andrà tutto bene. Respiri profondamente, e mi faccia la seconda domanda che voleva pormi".
"Mi scusi. La domanda è questa. Lei è libera stasera? Ho letto sul giornale che in un cinema d'essai a Dunkerque proiettano L'Atalante di Jean Vigo. E' una vita che desidero vedere quel film, e mi chiedevo se... lei volesse venire con me a vederlo, ecco."


Pubblicato su Evulon in due puntate: la prima il 7 gennaio 2011 qui, e la seconda il 12 gennaio 2011, qui.

martedì 8 febbraio 2011

La rivoluzione russa

La mattina del 20 settembre 1871, il Maestro Franz Liszt si esercitava al pianoforte nello studio della sua sontuosa magione di campagna vicino Budapest, quando fu interrotto da un confuso e concitato vociare proveniente dal portone d'ingresso.

"Che succede, Pierre?" chiese mentre raggiungeva il suo maggiordomo, il quale, bloccando con il suo corpo l'accesso alla casa, stava palesemente cercando di convincere un ospite indesiderato ad andarsene.

Quando Liszt, avvicinatosi dietro le spalle del suo domestico, poté scorgere l'aspetto dell'intruso (un uomo sui sessant'anni, calvo, barbuto, che sembrava assai malmesso, ma parlava un francese forbito con marcato accento parigino), quest'ultimo troncò subito, lasciando una frase a metà, il suo litigio con Pierre e, volgendo speranzoso lo sguardo al padrone di casa, così lo apostrofò:

"Maestro Liszt! Maestro! Vi prego, degnatevi di concedere udienza ad un vostro grande ammiratore, giunto or ora dalla Francia solo per avere l'inestimabile onore di fare la Vostra conoscenza!"

"Padrone!" diceva intanto il maggiordomo, "lasciate che cacci via a calci nel sedere questo vagabondo che pretende di farsi ricevere da Voi! E' inaudito! Come se qualsiasi pitocco potesse..."

"Va bene, Pierre, lascia pure entrare Monsieur... di grazia, come vi chiamate?"

Il viso dello strano ospite si rasserenò. "Mi chiamo Eugène Pottier. Da Parigi. Poeta. Per servirvi. Sapevo che avreste... oh, grazie, mille grazie, Maestro!"

"Potete chiamarmi semplicemente Padre. Come forse saprete, non sono che un umile servitore di Santa Romana Chiesa... Ma accomodatevi nel mio studio, ve ne prego, e raccontatemi di voi..." diceva Liszt mentre accompagnava il suo ammiratore lungo il corridoio. "Venite da Parigi, avete detto?", qui il musicista scoccò uno sguardo sospettoso sul suo interlocutore. "E dove siete diretto, se posso..."

Mentre Liszt tornava a sedersi al suo pianoforte, Pottier si accomodò su un'ampia poltrona disposta in modo da fronteggiare il lato destro dello strumento. Come in una sala da concerto, pensò Pottier un po' a disagio. "Maestro, cioè scusatemi, Padre. Avete già capito. Sono un combattente della Comune. Sono in esilio, ramingo per l'Europa, da ormai quattro mesi. Ma non voglio annoiarvi con il racconto delle mie tribolazioni. Sono venuto qui, attratto dalla vostra fama di grande artista e di uomo già attento alla questione sociale, perché ho un testo, da me composto, che vorrei chiedervi di porre in musica".

Ci furono alcuni secondi di silenzio, durante i quali le palpebre di Liszt si aprirono e si chiusero spasmodicamente per una ventina di volte. "Monsieur Pottier... vi rendete conto, spero, del rischio a cui state esponendo voi stesso e me. Mi è difficile comprendere come siate potuto giungere fin qui dalla Francia. Ma, che la vostra sia stata fortuna o incoscienza, sappiate che la polizia asburgica non è affatto indulgente con quelli come voi, né con chi dà loro rifugio."

Pottier si raddrizzò sulla poltrona. "Né fortuna, né incoscienza, Monsieur Liszt. Siamo stati sconfitti, è vero. Ma abbiamo compagni ovunque, pronti a dare il loro silenzioso contributo alla Causa. E' grazie alla loro solidarietà che sono riuscito a sopravvivere e ad arrivare a voi. La musica che porto con me" - a questo punto Pottier tirò fuori da una tasca della giacca un fascicolo spiegazzato, ingiallito e sgualcito, e lo tese a Liszt - "mi induce a confidare anche nella vostra solidarietà".

Sempre più stupito, ma senza offuscare la politezza dei suoi modi da gentiluomo, il musicista prese l'opuscolo che lo strano visitatore gli porgeva. Era uno spartito a stampa che recava sopra il pentagramma il titolo Lyon e il motto: Vivre en travaillant, ou mourir en combattant. Che si potrebbe tradurre, a un dipresso: Vivere del proprio lavoro, o morire combattendo.

"Dove l'avete trovata?" chiese subito Liszt. "Questa composizione non fa più parte della raccolta delle mie opere. Non viene più ristampata da..."

"Dal 1837" lo interruppe Pottier. "Me la regalò mio padre, il giorno del mio ventunesimo compleanno. Mi spiegò che un grande musicista l'aveva composta per celebrare il ricordo della rivolta degli operai disoccupati di Lione. Mi disse: se vuoi davvero fare l'artista, prendi esempio, figlio mio, e ricordati sempre da quale parte della barricata devi stare!"

Liszt guardò fisso il suo ospite, che ricambiava lo sguardo con fermezza. Poi sospirò. "Monsieur Pottier, i tempi sono cambiati. Persino quella testa calda del mio amico Wagner se n'è reso conto, ed è passato (come direste voi) dall'altra parte della barricata. L'epoca delle rivoluzioni è finita. Per sempre. Anche voialtri, col vostro folle tentativo laggiù in Francia, lo avete dimostrato. Datemi retta: la vostra cosiddetta questione sociale non ha alcuna soluzione. Non su questa terra, almeno. La sola cosa che posso fare per voi è scrivere due righe al priore del convento francescano che si trova a una lega da qui. E' mio amico. Vi darà ricetto e ospitalità, fino al giorno in cui Dio, nella Sua infinita misericordia, illuminerà la vostra mente, come già fece con la mia. Allora anche voi comprenderete, e vi rassegnerete alla Sua volontà".

Pottier rimase in silenzio. Poi fece per rimettere in tasca l'altro foglio di carta che ne aveva tratto poco prima e che stava per consegnare al grande musicista. Ma gli tremava la mano e, senza che lui se ne accorgesse, il foglio cadde per terra. Infine disse: "Bene, Monsieur Liszt. Vi chiedo scusa per l'incomodo e per il rischio che vi ho fatto correre. Mi ero sbagliato sul vostro conto. Ora non vi importunerò ulteriormente e, col vostro permesso, riprenderò il mio viaggio."

Stava per uscire senz'altro dallo studio di Liszt, ma quest'ultimo lo richiamo: "Aspettate, Monsieur Pottier. Non fatemi il torto di rifiutare la mia ospitalità, almeno sino a domattina... Tra poco sarà servita la colazione. Frattanto, accomodatevi, e siate così gentile da attendere che abbia finito i miei esercizi. Fra l'altro, suono meglio quando ho un pubblico ad ascoltarmi. Posso chiedervi inoltre, nuovamente, qual è la meta del vostro viaggio?"

Eugène Pottier si risedette. "Credo che andrò in Russia. C'è molto lavoro da fare, laggiù".

"In Russia!?" esclamò Liszt. Stava per aggiungere: voi siete pazzo, ma si trattenne. "Voi non sapete quel che dite! Ogni giorno, ogni giorno lo Zar incarcera, spedisce in Siberia o manda sul patibolo gente come voi! Ecco, guardate" - Liszt prese in fretta dallo scrittoio una rivista - "guardate questo giornale che mi è arrivato ieri da San Pietroburgo. Sapete leggere il cirillico? Ecco l'elenco dei terroristi che sono stati impiccati il mese scorso per avere cospirato contro la monarchia: Rodion Raskolnikov, Nikolaj Stavrogin, Aleksandr Uljanov... Va avanti per un'intera pagina! E voi volete andare in Russia?"

Pottier ribatté con calma: "Terroristi, avete detto? Uhm... no, non è questa la strada. Noi vinceremo, ma seguendo un altro cammino."

"Ah, sì? E quale, se mi è concesso chiederlo?

"Non lo so. Forse la strada non c'è. Ma so che c'è da camminare".

Liszt sospirò. Guardò Pottier. Poi guardò il giornale russo. Poi guardò il suo pianoforte. Infine ci si sedette e, senza dire niente, attaccò a suonarlo.

Suonava già da un quarto d'ora, e le tortuose armonie della Sonata in si minore si dipanavano con sicurezza sotto le sue dita, come un filo di lana in un labirinto, quando Liszt sentì un suono inconfondibile provenire dalla poltrona del poeta. Liszt portò a termine l'esecuzione della Sonata, poi si alzò dal pianoforte e risistemò delicatamente il poggiatesta imbottito sotto la tempia di Pottier. Quest'ultimo smise di russare, ma non si svegliò. Poi il musicista si chinò a raccogliere il foglio di carta che era caduto dalla tasca di Pottier. Si risedé al pianoforte e lo lesse. Era scritto in versi e iniziava così:

"Debout, les damnés de la terre
Debout, les forçats de la faim!
La raison tonne en son cratère
C'est l'éruption de la fin.
Du passé faisons table rase.
Foules, esclaves, debout, debout!
Le monde va changer de base.
Nous ne sommes rien, soyons tout!"


Il poema andava avanti su questo tono per un'altra decina di strofe. Liszt lo lesse con attenzione. Poi sbuffò forte col naso, mise il foglio da parte e si rimise al piano. Attaccò a suonare una sua composizione che s'intitolava Funérailles. Si interruppe dopo poche battute. Poi, per la prima volta dopo decenni, dalla cassa armonica rintoccarono le possenti note iniziali di Lyon. Ma anche questa esecuzione fu lasciata a metà.

Liszt si prese la faccia tra le mani. Cosa gli stava succedendo?

Infine il musicista sembrò distendersi. Riprese in mano il foglio con la poesia di Pottier e lo pose sul leggìo. Iniziò ad improvvisare. Si udì una melodia piuttosto bella, allo stesso tempo vivace e solenne, in ritmo giambico. (Molto tempo dopo, qualcuno l'avrebbe descritta come una via di mezzo fra Oh, my darling Clementine e La cucaracha).

Subito iniziò a variare. Mentre un ritmo lento, profondo e pauroso rombava nella parte sinistra della tastiera, la melodia si trasformò in un canto popolare slavo che sembrava provenire dall'inizio dei tempi.
Poi il ritmo si fece più veloce, incalzante e sincopato, come di tamburi africani, mentre la melodia, stranamente deformata in semitoni, diede l'allucinante impressione di provenire non più da un pianoforte, ma da una tromba con sordina, o da qualche altro strano strumento a fiato non ancora inventato.

Poi ancora la stessa melodia, resa esile, sottile e tintinnante, si stagliò nelle zone alte della tastiera, sullo sfondo di colpi molto distanziati, come di un gong, che provenivano dalla mano sinistra. Senza soluzione di continuità, questo tintinnio si tramutò nel canto di un muezzin. Poi fu come se, prodigiosamente, tutte queste versioni della stessa identica melodia risuonassero insieme. Pottier, che nel frattempo si era svegliato, non credeva ai propri occhi. Le mani di Liszt si muovevano ad una velocità sovrumana, producendo una fittissima gragnuola di note di ogni altezza, che scemava e poi di nuovo s'intensificava, fino a scoppiare in un'onda di energia di terrificante violenza. Infine, mentre le ultime risonanze dell'esplosione ancora si dissolvevano, la melodia iniziale ritornò piano, semplice ed infantile, lenta, simile ad un carillon che suonasse una ninna-nanna.

La straordinaria esibizione di Liszt aveva intanto richiamato tutta la sua servitù, che si era raccolta ad ascoltare in un piccolo drappello dietro la porta dello studio: erano anni che non lo sentivano suonare a quel modo. Fra di loro, c'era una famigliola composta da una giovane coppia con la loro bambina di tre anni.

"Hai sentito, Sandor?" disse la moglie. "Tu dicevi che il vecchio si era ormai completamente rincitrullito..."

"Sì, Hannah, te lo confermo: il vecchio si è totalmente rimbecillito. Ma per sua fortuna, le mani ce le ha ancora buone. Vieni, Milena!" prese in braccio la sua figlioletta, "ascolta. Un giorno anche tu dovrai suonare così".

Pubblicato il 7 ottobre 2010, qui: http://www.evulon.net/news.php?extend.3549

giovedì 3 febbraio 2011

Radici

"Sai" dico, "sono scaduti i diritti d'autore sulle opere di Freud".
E' domenica e sono le nove del mattino. Anna sa che, prima di colazione, non sono in grado di dire nulla che abbia un senso compiuto. Se è di buon umore, mi asseconda nel mio delirio. Oggi è di buon umore.
"Perché?", mi risponde. "Vuoi cominciare a tradurre Freud?"
"Magari. Purtroppo non so il tedesco. No, è per spiegare come mai mi sono alzato così presto. Ieri pomeriggio sono entrato in libreria e ho visto che la Newton Compton ha pubblicato questa edizione economica del saggio di Freud su Mosè..."
"Quello sul Mosè di Michelangelo? Ma non l'avevi già letto?"
"No, non quello sulla statua. E' una monografia proprio su Mosè il personaggio biblico. E' l'ultima grande opera di Freud, pubblicata nel 1938, un anno prima della morte. Non l'avevo ancora letta, perché l'edizione Bollati Boringhieri costa una barbarità e non mi andava di prenderla in prestito in biblioteca. Sai, i libri di Freud sono di quelli che voglio possedere. Comunque niente, ieri l'ho comprato e l'ho finito proprio poco fa. Senza zucchero, il tuo caffellatte, vero?"
"Tre cucchiaini, grazie".
"Mi prendi in giro?"
"Certo. Ma raccontami un po' questo libro, sono curiosa. E' assurdo come l'altro, quello sulla statua di Michelangelo? Quello dove Mosè, di ritorno dal Sinai, vedeva il suo popolo adorare il vitello d'oro, s'incazzava e stava per spezzare le tavole della legge, ma subito si tratteneva, e proprio in quel momento Michelangelo era lì che lo 'fotografava' con lo scalpello, e dietro un cespuglio c'era il professor Freud, col suo taccuino, che analizzava l'intera performance..."
"Dai, non essere così cattiva. Diciamo che, in quel saggio, Freud ha dato una sua interpretazione, un po' audace, di una celebre scultura rinascimentale. Comunque anche W. H. Auden, in una sua poesia, ha scritto che Freud a volte era assurdo e che ciò non diminuisce affatto la sua grandezza".
"Sarà. Intanto neppure il tuo Freud è riuscito a spiegare ad Auden la verità sull'amore".
"Tesoro! La verità sull'amore non la conosce nessuno. Tranne tu ed io, naturalmente".
"Naturalmente. Ma non mi hai ancora detto cos'ha di tanto speciale questo libro, che ti ha buttato giù dal letto poco dopo l'alba".
"E' presto detto. Hai presente Mosè, no? Il patriarca, il fondatore della religione ebraica, il profeta che guidò il suo popolo nell'esodo dall'Egitto verso la Palestina, che ricevette da Dio i dodici comandamenti, eccetera. Bene, Freud sostiene che Mosè, in realtà, non era affatto ebreo. Era egiziano".
"Ma va'?"
"Proprio così. Secondo Freud, Mosè era un nobile, o forse un alto sacerdote egiziano, seguace del dio Aton. Come ricorderai, il faraone Akhenaton aveva tentato di introdurre in Egitto il monoteismo, sostituendo al culto degli dèi la religione dell'unico dio solare Aton. Ma la sua riforma religiosa, molto avanzata per quei tempi, non ebbe fortuna. Quando Akhenaton morì, il politeismo riprese il sopravvento in Egitto. Il clero, che era stato represso ed esautorato da Akhenaton, morto il faraone, si vendicò ferocemente. Fu una reazione terribile: tutte le tracce del culto di Aton furono spazzate via. Persino il nome Aton fu cancellato dai monumenti".
"Sì, mi ricordo. Anche il faraone Tutankh-Aton, il giovane erede di Akhenaton, dovette cambiare nome, riconvertirsi alla vecchia religione e chiamarsi Tutankhamon. E forse neanche questo bastò a salvargli la vita, poverino! Probabilmente lo ammazzarono e lo chiusero nella tomba con quella bellissima maschera funebre tutta d'oro..."
"...quella che abbiamo visto cinque anni fa al museo del Cairo..."
"... durante il nostro viaggio di nozze. A proposito, fra poco è il nostro anniversario, Tato. Dove andiamo a festeggiarlo?"
"Mah, in Egitto ci siamo già stati. Ti porto a Vienna, a visitare la casa di Freud?".
"Anche a Vienna ci sono già stata".
"Ma io no. Comunque, stavo dicendo: Mosè era un fedele del dio Aton. La nuova religione gli piaceva proprio, e non si rassegnò alla restaurazione politeista. Era in contatto con questa popolazione di nomadi, che vivevano nel deserto, ai margini della società egiziana, chiamati Habiru...".
"Gli Ebrei?"
"Proprio loro. Mosè ne fece il suo popolo. Li convertì alla religione monoteista, diede loro nuove leggi, insegnò loro tutto ciò che sapeva, e li condusse con sé nell'esodo fuori dall'Egitto, verso la terra promessa."
"Ciumbia! Sembra una puntata di Voyager. Quali altre sensazionali rivelazioni ci sono, nel tuo libro? Nel senso: Mosè era egiziano, e poi? Shakespeare era siciliano? Le sinfonie di Mozart le ha scritte un veneto? Atlantide altro non era che la Sardegna? E qualcosa sul Graal? Non dirmi che non c'è niente sul Graal. Cioè, scusa, Tato, ma è una teoria un po' delirante..."
"Sshh! Se ridi così forte, svegli la bambina. Sì, hai ragione, è delirante. Proprio in ciò consiste la genialità di Freud. Lui ragionava come i suoi pazienti. Altrimenti non sarebbe mai riuscito a guarirli, no? Tramite lui, la Follia torna a parlare, dopo tre secoli di censura... E lascia perdere Voyager: non c'entra niente. Freud credeva in ciò che diceva, e non gli interessava fare audience".
"Boh. Ma li guariva, i suoi pazienti?"
"Certo che li guariva! Guarda, mi hai fatto talmente arrabbiare che mi sono mangiato tutti i pistokeddos".
"I savoiardi di Atlantide? Ma se te ne mangi un'intera confezione ogni mattina. Sei forte, Tato. Però spiegami una cosa. Allora, siamo nel 1938. Mezza Europa è sotto dittature fasciste, Hitler sta per annettersi l'Austria, lo stesso Freud deve scappare a Londra per sfuggire alla persecuzione, e in questa situazione tragica per il suo popolo, il professore non trova di meglio che pubblicare un libro dove sostiene che il fondatore dell'ebraismo non era ebreo? A me pare una mezza vigliaccata, non capisco come fai a parlarne con tutto questo entusiasmo".
"Ma caspita, Anna, è proprio questo il punto! Senti: chi ha vinto le ultime elezioni?"
"Non capisco cosa c'entra".
"Come, che c'entra? Ma lo senti, quello che dicono? 'Padroni a casa nostra. Ognuno a casa sua. Il Suolo. Il Sangue. La Razza. Le Tradizioni. Le Radici. Il Territorio. Radicarsi nel Territorio'... Dio, quanto ce la menano co' 'sta storia del territorio! Tutti a ribadire come un disco rotto che bisogna Radicarsi nel Territorio, come se non fossimo esseri umani, ma olmi, o platani, o che so io. E come se non fossero stati proprio loro a devastarlo e distruggerlo, 'sto cazzo di territorio, da quarant'anni in qua, a furia di capannoni e svincoli e tangenziali e inceneritori e ripetitori, centri commerciali e colate immonde di cemento, fabbriche aperte e poi chiuse, e sempre zero solidarietà, zero giustizia, zero cultura, zero arte e zero umanità... Talmente spaventati e abbrutiti e rimbecilliti da questo schifo che loro stessi hanno prodotto, da non saper fare altro che cercare spasmodicamente qualche capro espiatorio, cui far scontare tutta la loro bile e la loro frustrazione... E prima i meridionali, e poi i tossici, e poi gli albanesi, e ora gli islamici..."
"Adesso sei tu che rischi di svegliare la bambina".
"Sì. Scusami. Preparo un altro caffè. O preferisci un po' di spremuta d'arancia?"
"Spremuta, grazie. Quando parli di quelli là, mi sembri tuo padre".
"Che cosa brutta che hai detto..."
"Perché? Mi sta simpatico, tuo padre. Ma non mi hai ancora spiegato cosa c'entra tutto questo con Freud".
"Niente, tranne il fatto che tutta quella ripugnante retorica del Sangue e del Suolo era esattamente la stessa di cui si riempivano la bocca gli antisemiti al tempo di Freud. Sai cosa dicevano? Questo, dicevano: che ogni razza ha un proprio suolo d'origine, a cui è legata da un vincolo spirituale e mistico; che la qualità del suolo determina la qualità della razza; che gli ebrei non hanno patria, non hanno territorio e quindi non hanno dignità, sono nomadi e sbandati, vivono da parassiti degli altri popoli, eccetera eccetera."
"Beh, oggi gli ebrei ce l'hanno, il loro Stato".
"E infatti i razzisti di oggigiorno non se la prendono più tanto con gli ebrei (almeno per ora), quanto soprattutto con gli zingari e con i migranti. Ma gli argomenti sono più o meno gli stessi. Ed è contro questi argomenti che Freud mette in campo il suo Mosè. Considera questo: gli dèi che le popolazioni del Medio Oriente veneravano, a quell'epoca, erano divinità nazionali; ogni popolo aveva le sue, e queste facevano tutt'uno con il loro territorio. Erano divinità guerriere, rozze, sanguinarie, che accompagnavano ciascun popolo nella sua lotta per la supremazia sugli altri popoli."
"Ma era proprio così o lo dice Freud?"
"Non lo so. Non m'intendo di storia delle religioni. Comunque, Freud sostiene che il dio di Akhenaton e di Mosè era un dio molto diverso dagli altri dèi suoi contemporanei. Era un dio illuminista, per così dire. Anzi, quasi kantiano. Pacifista. Un dio universalista: non gli importava la nazionalità dei suoi fedeli. Non gliene fregava niente di cerimonie, riti, preghiere, statue o amuleti. Non pretendeva templi dove essere adorato, né una casta di sacerdoti per servirlo. Nemmeno prometteva alcuna vita dopo la morte. A questo dio, importava solo una cosa: che ci si comportasse bene. Che si vivesse una vita secondo ragione, verità e giustizia. Tutto qui. E' questa, secondo Freud, l'essenza del monoteismo ebraico: solo una personificazione della Ragione e della legge morale. L'aspetto etnico o nazionale o 'razziale' è così poco importante, nella concezione freudiana del monoteismo, che lo stesso fondatore dell'ebraismo non è ebreo. E allora il paradosso è che, con questo libro, l'ateo, scientista e razionalista Freud ha reso alla religione e alla cultura dei suoi padri l'omaggio più elevato che per lui fosse concepibile..."
"Bello. Ma è tutta una contraddizione. Prima non hai detto che tramite Freud la follia trova finalmente voce? Adesso te ne esci con questo panegirico della Ragione illuminista. Poi, scusa Tato, ma mi sembra tutta una diatriba tra maschi. Il dio di Freud, così ragionevole e tollerante, contro i rozzi e violenti dèi guerrieri delle mitologie pagane, va bene. Però le dee? La Grande Madre Mediterranea, per esempio, che fine ha fatto? E Iside? E poi, non capisco questa cosa dell'iconoclastia: cosa avete contro le cerimonie, i riti, e anche contro la magia, le statue e gli amuleti? Non so, sarà anche una bella cosa, questo famoso monoteismo, un grande progresso, non discuto, ma non so perché mi fa venire in mente la caccia alle streghe... Vado a svegliare la bambina, vah! Ché se no si fa tardi".
"No! Aspetta un minuto".

Pubblicato il 7 maggio 2010, qui: http://www.evulon.net/news.php?extend.3368