martedì 20 dicembre 2011

La stanza della duchessa

Quello che segue è un racconto che ho scritto per partecipare a un concorso letterario. Le regole sono: un racconto dal titolo "La Stanza della Duchessa", della lunghezza massima di 3.600 caratteri, che contenga un riferimento alle scarpe (lo sponsor è il Museo della Calzatura di Vigevano). Il racconto dev'essere inedito, ma ne è ammessa la pubblicazione sul proprio blog. E allora, eccolo qua. La versione seguente è un po' più lunga di quella che invierò per il concorso (ho dovuto ridurre il testo per rientrare nel limite delle 3.600 battute).
Aggiornamento (25 febbraio 2012): pubblico qui di seguito la versione che ha partecipato al concorso (e che non ha vinto). La versione lunga, invece, la potete leggere su Evulon.


La notte del 7 gennaio 1463, a Parigi, dopo l'ora del coprifuoco, un uomo percorreva a grandi passi la rue Saint-Jacques deserta, diretto verso la Senna.
Era magro e allampanato, piuttosto malmesso. Portava una voluminosa borsa e, in più, teneva sotto il braccio un fardello malamente avvolto in un panno. Faceva molto freddo.
Giunto nei pressi del Petit Pont, l'uomo si fermò sotto una finestra, raccolse della ghiaia e la gettò contro i battenti. Poi chiamò con voce smorzata: "Margot! Aprimi!"
All'interno una candela si accese. L'uscio si aprì e una voce femminile mormorò: "Villon? Sei tu?"
"No, sono il re d'Inghilterra. Sei sola?"
"Sì. Stanotte non ho clienti".
"Allora dai, fammi entrare, o domattina uscendo mi troverai qui stecchito come un'aringa!"
"Grazie al cielo! Allora ti hanno scarcerato", disse Margot, guidando il suo amico su per la scala del modesto alloggio.
"Già" rispose lui, "la Suprema Corte ha accolto il mio appello. Per stavolta non finirò sulla forca. Però..."
Si interruppe, osservando con aria incerta Margot la quale, nel frattempo, si era seduta sul bordo del letto a due piazze che occupava quasi interamente la stanza.
"Come, per stavolta?" disse la ragazza. "In che altri guai ti vorresti cacciare? Siediti invece, e fammi vedere cosa c'è nel fagotto che hai portato. Un regalo per me, vero?"
François si accomodò accanto a Margot e srotolò il panno, che conteneva un paio di eleganti sandali di pelle dal tacco alto.
"Dove li hai comprati?" disse lei, sorridendo deliziata.
"Sono scarpe italiane" disse lui. "Erano sulla bancarella di un mercante lombardo, alle Halles. Non è che le ho proprio comprate. Mi sono detto: queste sono per la mia Margot! Allora mi sono avvicinato di soppiatto e..."
La donna lo zittì con un bacio. Poi spense la candela.
Intanto, fuori, iniziava a nevicare.

Quando François si svegliò (era mattina inoltrata), per prima cosa vide Margot che stava disegnando con un carboncino sul retro di un manoscritto.
"Scusa", disse Margot, "mi serviva un foglio e ho visto che la tua borsa ne era piena. E' il tuo ritratto", disse porgendo il foglio a François. "C'era scritto qualcosa di importante?"
"No", disse lui. "E' una stanza della ballata che scrissi cinque anni fa per la duchessa d'Orléans. Ma era una brutta poesia. Il tuo disegno, invece, è molto bello. Conservalo, te ne prego".
"Allora è deciso! Io la duchessa, tu il duca, e questo sarà il nostro castello!"
"Margot, ti devo dire una cosa. I giudici hanno annullato la mia condanna a morte, è vero. Però mi hanno bandito da Parigi".
La donna si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Era tutto ricoperto di neve. "Per quanto tempo?", disse.
"Dieci anni. Devo lasciare la città entro oggi".
Margot si volse e, guardando François dritto negli occhi, disse: "Vengo con te".
Lui scese dal letto. Raggiunse Margot, che era in piedi davanti alla finestra. C'era il sole, e il riverbero illuminava i capelli di lei. Sempre guardandola negli occhi, François prese fra le sue le mani di Margot.
"Andremo in Italia", disse François. "Laggiù ci sono città accoglienti e ben governate, rette da leggi giuste. L'arte e la poesia sono onorate e apprezzate. Quello è il posto per noi! Potremmo andare a Firenze da Cosimo de' Medici, o anche a Napoli, da re Ferdinando. Oppure nel Ducato di Milano, da Francesco Sforza: mi hanno detto che lì si vive bene. Partiamo adesso!"
"Sì. E quando questa neve si sarà sciolta, noi saremo già lontano", disse Margot.

giovedì 17 novembre 2011

Baricco e il postmodernismo da quattro soldi

Sul "Primo Amore" Antonio Moresco ha pubblicato una bella lettera aperta ad Alessandro Baricco, in risposta a un'intervista concessa da quest'ultimo al "Venerdì di Repubblica".

Baricco, parlando del suo ultimo romanzo, non si limita ad esporre la sua personale poetica di scrittore, ma pretende di far assurgere quest'ultima al livello di teoria generale della letteratura valida per tutti. Moresco rimprovera giustamente a Baricco l'arroganza di tale pretesa.

Baricco non è nuovo a questo genere di smargiassate, così le chiamava il mio professore di filosofia del liceo (si riferiva alle teorie pseudo-storiciste di Francis Fukuyama, ma la definizione è adatta anche a quelle di Baricco). Nel 1992 lo stesso Baricco pubblicò per l'editore Garzanti un testo teorico sulla musica moderna (oggi reperibile in edizione Feltrinelli) dove, con piglio zdanoviano, condannava tutta la musica "atonale" in quanto non adeguata ai gusti della "gente". Nel 2003, qui, pubblicai una recensione di questo libro. La ripropongo ora qui in calce, con minime variazioni. Non mi piace molto com'è scritta, però contiene un'idea che, dopo aver letto il fondamentale libro del collettivo Wu Ming sul New Italian Epic, mi è diventata più chiara: l'idea, cioè, che il "postmodernismo da quattro soldi" sia una delle forme più pervasive e insidiose in cui si presenta oggi l'ideologia dominante. Ecco la recensione.

Alessandro Baricco, L'anima di Hegel e le mucche del Wisconsin. Una riflessione su musica colta e modernità, Garzanti, Milano 1992, pp. 101.

Avvertenza per gli estimatori di Alessandro Baricco: la presente è una stroncatura.

1. Riassunto dei contenuti del libro

Nel primo capitolo, intitolato L'idea di musica colta, Baricco individua l'origine del concetto di musica colta nell'idealismo romantico dell'Ottocento, la cui figura principale, Beethoven, stabilisce il paradigma a cui tutti i successivi compositori, nonché gli interpreti e il pubblico, si attengono: "una musica impegnata, spirituale e difficile" (p. 19). Tale concetto è oggi, secondo Baricco, sopravvissuto a se stesso, dato che ne sono venuti meno i presupposti storici, ideologici e sociali ("qualcuno sa cosa significa spirito?", p. 20). Ma gli esecutori e i fruitori della musica colta si ostinano a riproporre questa concezione ormai superata, e a riproporre i capolavori del passato in forma mummificata e inerte, secondo un malinteso concetto di fedeltà al testo, fondamentalmente perché - sempre secondo Baricco - hanno "paura" della modernità.

Nel secondo capitolo, come alternativa alla prassi corrente, Baricco propone la "sua" idea di interpretazione. La musica "colta" del periodo classico si proponeva di organizzare il caos entro un preciso ordine formale; compito dell'interprete di oggi è, secondo Baricco, di far esplodere tale ordine per far sì che le "schegge" del materiale musicale si possano ricomporre secondo nuove geometrie provvisorie, momentanee, ogni volta diverse, secondo costellazioni di senso sempre rinnovate, piacevoli e sorprendenti.

Il terzo capitolo è dedicato alla musica atonale del Novecento. Baricco parte da un'audace constatazione: ma questa musica, dopo più di settant'anni, ancora non ha un suo pubblico! Gli ascoltatori, per quanto si sforzino, non la apprezzano e non la capiscono! Hanno torto loro? No, naturalmente: hanno invece avuto torto Schoenberg e i suoi successori (tutti quelli che hanno composto musica atonale, vale a dire i tre quarti dei compositori del Novecento da Berg a Webern fino alla scuola di Darmstadt e oltre).

Baricco spiega il perché: esistono "invalicabili limiti fisiologici" (p. 55) che impediscono all'orecchio umano di apprezzare la musica atonale. Infatti ogni brano musicale, continua Baricco, altro non è che un "meccanismo di piacere" (ibid.) basato su un gioco di previsione da parte dell'ascoltatore/risposta da parte della musica: se si cancella la logica tonale, sparisce l'orizzonte della previsione e si elimina il "piacere dell'ascolto" (p. 56).

La musica seriale è ormai superata, e anche qui Baricco non manca di dare la sua spiegazione sociologico-storica: l'atonalità di Schoenberg e seguaci nasce come espressionistico grido di orrore di fronte alla tragica realtà dei massacri e dei totalitarismi del Novecento. Ma nel secondo dopoguerra, "una volta sfumata quella follia" (p. 63) e venuti meno i conflitti ideologici e sociali che caratterizzarono la prima metà del secolo, anche tale giustificazione per l'atonalismo viene a mancare. Perciò non ci sono più motivi validi per i quali i compositori debbano ostinarsi a frustrare "le legittime aspettative del pubblico" (p. 65) continuando a proporre musica così inascoltabile, e perpetuando "lo strappo profondo e grottesco tra quella musica e la gente" (p. 66).

Occorre dunque richiamare i compositori "ai doveri della modernità" (p. 67), "ricreare una sintonia col sentire collettivo. Con una certezza: la modernità è innanzitutto uno spettacolo" (p. 73) e la gente vuole innanzitutto divertirsi, anche nelle sale da concerto: i musicisti devono dunque accettare "l'allegra realtà di un'umanità inconsapevolmente e sanamente drogata" (p. 70), di una modernità dove "la spettacolarità del reale e quella delle forme di rappresentazione si inseguono in un'escalation per la quale anche l'orribile diventa meraviglia" (ibid.).

Nell'ultimo capitolo del suo libro, Baricco propone ai compositori contemporanei due modelli da seguire: Puccini e Mahler. Secondo Baricco, questi due autori avrebbero accettato la concezione moderna di spettacolarità, senza temere di adottare un linguaggio musicale primitivo, né d'infarcire le loro opere di elementi volgari o di cattivo gusto, pur d'intercettare il bisogno di spettacolo dell'ascoltatore odierno, precorrendo così l'estetica del cinema.

2. Critica

Sui primi due capitoli non c'è molto da dire: si tratta di luoghi comuni che Baricco espone come se si trattasse di trovate sue; interpreti come Pierre Boulez (nella sua attività di direttore d'orchestra) e Maurizio Pollini adottano da sempre prassi esecutive antiformalistiche senza bisogno di attendere lezioncine da parte di Alessandro Baricco: di propriamente suo c'è solo un certo superficiale edonismo.

Circa i restanti capitoli del libro, premesso che reputo agghiacciante ognuna delle frasi o espressioni di Baricco che sopra ho citato tra virgolette (reazione molto soggettiva, lo ammetto), la prima osservazione critica da fare su questo testo è che Baricco propone un'estetica normativa, vale a dire un'estetica che pretende di prescrivere agli artisti come devono lavorare (non dovete più scrivere musica atonale, dovete farvi capire dalla "gente", ecc).

Ora, ogni estetica normativa è un'aberrazione, indipendentemente dal suo contenuto. Se poi si vuole valutare quest'ultimo, bisognerà osservare che Baricco si accosta ad Andrej Zdanov, il "teorico" sovietico del realismo socialista: anche lui pretendeva dai compositori una musica dal linguaggio semplice, tradizionale, accessibile alle grandi masse popolari. Zdanov avanzava tale pretesa in nome del superiore interesse del socialismo, Baricco in nome della "modernità" e della fine delle ideologie, ma il risultato non cambia. Baricco, nella sua irritante e dilettantesca superficialità, non sembra neanche rendersi conto del totalitarismo implicito nella pretesa che gli artisti debbano conformare la loro produzione ai gusti della "gente".

D'altra parte neppure si capisce bene quale pubblico Baricco abbia in mente: il pubblico che frequenta le sale da concerto è così esiguo che non vale neanche la pena che i musicisti si affannino per compiacerlo: e peggio per tale pubblico se non riesce ad apprezzare Anton Webern. Viceversa, il pubblico che non ha mai messo piede in un auditorium e non ascolta Schoenberg e Stockhausen, nella sua stragrande maggioranza non ascolta neppure Mahler e Puccini, ed evidentemente non per motivi ascrivibili al solo linguaggio musicale.

In ogni caso, dal fatto che la lettura di questo libro non mi ha impedito neppure per un minuto di continuare ad ascoltare il mio CD con i pezzi per pianoforte di Schoenberg, deduco che quella degli "invalicabili limiti fisiologici" è una colossale sciocchezza, con cui Baricco cerca malamente di giustificare la propria opposizione ideologica alla musica d'avanguardia.

La sua valenza ideologica è in realtà l'unico aspetto un poco interessante di questo libro. Esso, con la sua esaltazione del disimpegno, delle gioie del consumismo e della "gente" che vuole divertirsi, appare come un esempio tipico di quella versione euforico-ebetudinaria del postmoderno che ha furoreggiato nel nostro paese durante tutti gli anni '80: un'epoca nella quale a molti intellettuali non è parso vero di poter finalmente riproporre (nell'aggiornatissimo linguaggio filosofico post-strutturalista) l'antico, tradizionale qualunquismo italiano. Appare tristemente ironico che alcuni di quegli intellettuali si scaglino oggi dalle pagine dell' "Unità" o di "Repubblica" contro le impreviste (ma prevedibili) conseguenze politiche della loro stessa filosofia.

P.S. Ad un certo punto del suo testo, Baricco inserisce alcune oscure insinuazioni a proposito di presunte "coperture politiche" di cui gli artisti dell'avanguardia musicale avrebbero goduto nel nostro paese. Sorge allora la tentazione di leggere questo libro, il cui valore teorico-critico è nullo, in chiave direttamente pratica: forse Baricco si è proposto di approntare un "manifesto" per i musicisti della cosiddetta scuola neo-romantica?

Mi sono allora comprato un disco antologico di un esponente di questa corrente musicale, che ebbe anch'essa un effimero momento di notorietà nel corso degli anni '80: Marco Tutino, Operas, CD Aura Music AUR421-2, 2000, Euro 4,25. Si tratta di composizioni carine, indubbiamente orecchiabili, il cui linguaggio musicale si colloca fra le colonne sonore di Bernard Herrmann e i balletti di Aaron Copland, il tutto realizzato senza troppa fantasia e con circa trent'anni di ritardo.

Bene, ho fatto un piccolo esperimento. Un brano di questo CD di Marco Tutino l'ho fatto ascoltare ad un mio coinquilino che ascolta solo reggae ed hip-hop (e che, così facendo, qualche volta supera gli invalicabili limiti fisiologici delle mie capacità d'ascolto), e poi gli ho fatto sentire qualche minuto di Contrappunto dialettico alla mente di Luigi Nono (1968). Nessuno dei due brani gli è piaciuto, ma ha trovato di gran lunga più interessante quello di Nono.

martedì 4 ottobre 2011

Una pagina che Thomas Mann non ha mai scritto

"Gli occidentali hanno forma, ma non hanno profondità", sentenziò Deutschlin. "I russi hanno profondità, ma non hanno forma. L'una e l'altra le abbiamo soltanto noi tedeschi".

"Bella frase, Deutschlin", disse Adrian. "Dovresti ripeterla domattina durante la lezione di ginnastica: il professore ne sarà contentissimo".

Deutschlin rise nervosamente. Era sempre difficile capire se Adrian parlasse sul serio o celiasse e, nel secondo caso, se avesse o meno l'intenzione di burlarsi del suo interlocutore.

Adrian proseguì: "E cosa mi diresti di un popolo allo stesso tempo caotico e superficiale? Un popolo presso cui non esistono ruoli, né regole definite e stabili. Dove il linguaggio stesso non conosce significati precisi e sempre uguali, e dove non ci si può intendere, né si può fare affidamento sulla parola di chicchessia, né è possibile l'arte, se questa presuppone un codice di comunicazione fra gli artisti e il pubblico. Dove tutto ciò che si dice, o si fa, rimane senza conseguenze. Dove si può essere indifferentemente il peggiore dei mascalzoni o la persona più santa, senza che ciò influisca affatto sulla reputazione e sulla carriera. Dove la politica non è altro che una farsa senza fine in cui il governo finge di governare, l'opposizione finge di opporsi, e ognuno si fa gli affari suoi..."

"Leverkühn!" - lo interruppi. "E' orribile! Forse ho capito a quale popolo ti riferisci. Ma sei molto ingiusto. In nessun luogo si potrebbe vivere così. Stai descrivendo l'Inferno in terra".

"Credi, Zeitblom?" rispose Adrian lentamente. "Ma questo è ciò che pare a te, da bravo studente prussiano quale tu sei. Invece, a quanto ne so, quello che ti ho appena descritto è uno dei popoli più felici. O almeno, è il popolo che sembra il meno disposto a cambiare la propria situazione. Se li vedessi, come ridono e scherzano tutto il giorno..."

"Ah, basta così" intervenne ancora Deutschlin. "Finitela con le vostre chiacchiere cupe e confuse! Io so soltanto che il secolo ventesimo, iniziato or ora, sarà un'epoca di progresso e di pace, e che noi tedeschi saremo chiamati a guidare l'Europa verso un avvenire luminoso. Gli altri popoli dovranno solo riconoscere la nostra indubbia superiorità morale, e lo faranno certamente. In un modo o nell'altro".

Adrian non lo ascoltò nemmeno. Sdraiato sulla paglia come noialtri, sembrava assorto in una sua visione, le mani dietro la nuca e lo sguardo fisso in un punto sul soffitto del fienile. "L'inferno, hai detto? Interessante..."

Mentre rientravamo verso la città, lo presi da parte e gli posi una domanda. "Dimmi, Leverkühn" gli chiesi, "ma tu cosa vorresti fare dopo il diploma?"

"Non te l'ho mai detto, Serenus?" Per la prima volta mi aveva chiamato per nome. "Farò il musicista".

Pubblicato il 3 ottobre 2011 su Evulon.

giovedì 4 agosto 2011

Pausa pranzo

Torno a casa. Metto una pentola d'acqua sul fornello e lo accendo. Poi prendo un dischetto e lo metto nel lettore.

Beethoven, Sonata op. 106 nell'orchestrazione di Felix Weingartner. Royal Philharmonic Orchestra, diretta dallo stesso Weingartner. Incisione storica, del 1930. Riversata su CD, edizione economica.

Che idea bislacca, trascrivere l'Hammerklavier per orchestra. L'opera, così, non funziona. E' incongrua, fuori posto. O forse è l'arrangiamento che non va bene: tutto in legato! Come no: siccome al piano non si può fare e con l'orchestra sì, allora mettiamo il glissando un po' dovunque...

Non importa. L'op. 106 è bellissima anche così. Beethoven è l'unico musicista che riesce a commuovere anche nelle esecuzioni più impossibili, e nelle situazioni d'ascolto più precarie.

Audiocassette in edizioni da autogrill della Quinta o della Sonata al chiaro di luna ascoltate in auto, d'estate, andando verso la spiaggia, coi finestrini aperti e quasi tutta la musica che si perde nel rumore...

C'è qualcosa di disneyano, nell'orchestrazione anni '30 di Weingartner. Quando ho visto per la prima volta Fantasia? Non ricordo, ma dovevo avere quattro o cinque anni. A Milano. I miei mi portarono al cinema, sicuramente, e qualcosa deve essersi depositato profondamente nella mia memoria. La Sesta sinfonia mi sembra di conoscerla da sempre.

Questa, però, è preistoria. La storia dei miei ascolti musicali comincia invece a metà degli anni '80. Avevo (o meglio, i miei genitori avevano) un magnetofono da tavolo a cassette, di quelli che si usavano per registrare pro-memoria e appunti vocali. Io lo usavo per sentire musica. Le cassette le avevo comprate all'uscita da scuola, prima di prendere il treno che mi avrebbe ricondotto a casa.

Il corso principale della città dove frequentavo il liceo scientifico aveva due negozi di dischi. Quello della signora Esposito era il più fornito: aveva dei meravigliosi cataloghi delle principali case discografiche. I cataloghi, però, mi mettevano in imbarazzo. Avrei voluto consultarli per ore, ma non stava bene: a un certo punto bisognava scegliere e ordinare. E poi, la cassetta arrivava dopo settimane, e a quell'epoca ero molto impaziente.

Il negozio del signor Cavo (dischi ed elettrodomestici, nomen omen) era più piccolo, ma aveva la particolarità di essere praticamente sempre aperto. Arrivavi col treno la mattina presto e trovavi già la saracinesca alzata, oppure perdevi il primo treno del ritorno, e potevi comunque rifugiarti una mezz'oretta da Cavo a contemplare lo scaffale con le cassette, senza essere disturbato (era, e per quanto ne so è ancora, un uomo di una discrezione esemplare, cosa non frequente in provincia). Potevi stare lì davanti quanto volevi prima di scegliere cosa comprare, oppure anche uscire senza aver preso niente, con un semplice grazie e arrivederci.

Ma, quando avevo diecimila lire in tasca, mi piaceva sempre entrare da Cavo per poi uscirne con una cassetta di Mozart o di Beethoven ben sistemata in mezzo ai libri - che tenevo orgogliosamente legati con una cinta elastica, per distinguermi dai miei compagni che sfoggiavano zainetti Invicta dai quali, durante l'intervallo, tiravano fuori i loro dischi di musica pop.

Intanto l'acqua bolle. Mezzo cucchiaino di sale. Apro la dispensa: pennette rigate o spaghetti? Opto per gli spaghetti: cuociono prima.

"La città dove frequentavo il liceo". Ho già scritto il nome di questa città? No. Lo scrivo adesso: Locri. Provincia di Reggio Calabria.

Da una vita, la semplice domanda "Di dove sei?" mi obbliga a fornire spiegazioni complicate e, suppongo, noiose, e anche poco convincenti. Ai tempi del liceo la risposta era semplice: di Africo. Se l'interlocutore era discreto, bastava così. Altrimenti scattava l'altra domanda: "E perché parli con l'accento milanese?" - Sai, la mia famiglia abitava a Milano, poi ci siamo trasferiti in Calabria. "Ah, allora i tuoi sono milanesi". - Niente affatto, siamo calabresi da chissà quante generazioni; ma i miei erano emigrati a Milano alla fine degli anni '60. "E come mai siete tornati qui?" - Uffa...

Da quando sto al Nord, la spiegazione è diventata ancora più involuta e implausibile. Se ci penso, mi vedo in un commissariato di polizia, seduto davanti a una lampada da tavolo puntata addosso a me, mentre l'ispettore, nascosto in una minacciosa penombra, mi inquisisce. "Ricominciamo daccapo. Di dove sei?" - Di Vigevano. "Ma non parli con l'accento di Vigevano". - No, perché sono calabrese. "Ma sul documento c'è scritto che sei nato a Milano". - Sì, perché all'epoca i miei abitavano lì. "Ah. E adesso dove abitano?" - Ad Africo. "Prima hai detto a Bianco." - Sì, anagraficamente stanno a Bianco. Sono due paesi confinanti. In realtà casa dei miei è tra Africo e Bianco, sulla statale. Ma comunque è più vicina ad Africo che a Bianco, anche se, sulla carta, è nel territorio di Bianco. Però i miei sono di Africo. "Ricominciamo daccapo..."

Intanto l'op. 106 di Beethoven, trascritta da Weingartner, è finita. Devo cambiare il CD. Ho ancora una cinquantina di minuti prima di tornare in ufficio. Cosa metto?

Scelgo velocemente, prima che la pasta scuocia: Invenzioni a due e tre voci di J. S. Bach. Glenn Gould, al pianoforte.

Butto gli spaghetti nello scolapasta. Che senso ha suonare il piano facendo finta che sia un clavicembalo? Venticinque anni che ascolto Gould e me lo chiedo.

Dicembre millenovecentoottantotto. Pomeriggio. Devo studiare per l'interrogazione di matematica. Non ne ho proprio voglia. Slego il fardello dei libri di scuola e ne estraggo il mio acquisto di oggi. Una cassetta made in U.S.A., dall'elegantissima copertina nera bordata d'oro. Bach, Inventions and Sinfonias. Glenn Gould.

Metto la cassetta nel mangianastri. Una musica astratta, trasparente, cantabile. Sembra provenire dallo spazio siderale, eppure i contorni si distinguono con precisione. Una sensazione di freddo secco, fine e pungente.

Guardai fuori. Non potevo crederci: stava nevicando. La casa dei miei è sul mare; l'Aspromonte dista solo una cinquantina di chilometri, ma qui sulla costa l'inverno è mite, la neve è un evento che capita forse una volta ogni dieci anni. Capitò quella volta. Mi alzai dalla scrivania e andai alla finestra a vedere i cristalli che scendevano lentamente.

L'inverno è mite, sulla costa ionica della Calabria. La stagione peggiore è l'autunno. A fine ottobre le piogge arrivano improvvise, massicce e violente, e possono durare per settimane. Non c'è che da chiudersi in casa e aspettare che passino.

Ho sedici anni e sto correndo attraverso la piazza principale di Locri verso la stazione. Il cielo è nero, l'aria è elettrica e tra poco scoppierà un forte temporale. Stavolta ho perso troppo tempo dalla signora Esposito, non sapevo decidermi, alla fine ho comprato la Sesta sinfonia di Beethoven e i concerti K. 488 e K. 491 nell'interpretazione di Daniel Barenboim, ma ora rischio di perdere il treno. La Sesta un po' la conosco, è quella della pubblicità. Ma il Concerto in do minore. Chissà com'è. Mozart scrive raramente in minore. Ma quando lo fa, mette i brividi. Mi precipito con il cuore in gola, mentre le bobine sbattono ritmicamente contro l'involucro di plastica nascosto fra i libri.

"Secondo le testimonianze di molta gente che ha vissuto in prima persona quei tragici giorni dell'alluvione e attraverso dei libri pubblicati da alcuni scrittori del paese, il 15 ottobre 1951 rappresenta una data indimenticabile e storica per il popolo di Africo in quanto un evento imprevisto sconvolse l’esistenza di Africo e della sua frazione, Casalnuovo. Per quattro giorni consecutivi dal 15 al 18 ottobre 1951, una bufera di vento, pioggia e nevischio si abbatté ininterrottamente sui due paesi causando frane, crolli di abitazioni e la distruzione di intere colture. La gente, spaventata, si riversò in massa in chiesa, pregando Dio e il suo Santo protettore, San Leo. La catastrofe avvenne soprattutto giorno 17 con continue frane, smottamenti di terreno, pioggia battente e violenta".

"La mattina del 18 ottobre la gente ricorda un'aria rossastra su nel cielo che metteva paura solo ad osservarla. [...] Molti furono quelli che, sorpresi dal maltempo, non fecero in tempo a mettersi in salvo, perché la piena del fiume impedì loro la via del ritorno a casa. Alla fine i due paesi contarono i danni: i morti furono sei a Casalnuovo e tre ad Africo. Gran parte del bestiame fu trascinato dal fiume, le case furono per la maggior parte distrutte e sepolte, le colture non più esistenti perché trascinate dalla pioggia."

"La lenta organizzazione della vita civile e della lotta politica fu sconvolta dall'alluvione del 1951. Una frana spazzò via il paese. I morti furono pochi, ma Africo scomparve. La storia della ricostruzione è allucinante. Per tutto un decennio gli africoti cercarono il terreno per ricomporre la loro comunità. Si iniziò una lotta tra chi voleva tornare nel vecchio territorio, dove erano restate le misere proprietà, e quelli che cercavano una sistemazione nuova. La scelta di una soluzione divise i due campi, anche la sinistra. Alla fine prevalse la tesi, sostenuta da don Stilo e dalla DC, di costruire un nuovo comune in una località distante 50 chilometri dal vecchio paese. Per lunghi anni la maggioranza degli africoti visse in un campo profughi. All'inizio del 1960 era sorta Africo Nuovo".

Un bambino di nove anni. Una bambina di due anni. Che esperienza possono aver fatto della catastrofe, e poi della loro condizione di profughi? Come l'hanno vissuta? Che tracce ha lasciato su di loro?

I miei genitori mi hanno parlato pochissimo dell'alluvione e degli eventi successivi. Hanno sempre insistito affinché studiassi, hanno incoraggiato i miei interessi per la musica, la letteratura, le scienze. Mi hanno sostenuto fino al diploma, poi fino alla laurea. Ma sugli eventi del loro paese non mi hanno mai detto molto.

Mio padre non sopporta il vento. Se è notte, e fuori c'è vento, non riesce a dormire.

"Non si è mai capito - manca una documentazione e mancano anche testimonianze orali credibili - se fu la mafia calabrese a premere per ricostruire Africo nel territorio di Bianco, senza terra, senza delimitazione territoriale e stato giuridico (com'è rimasto fino al 1980), in una località dove i contadini poveri, la grande maggioranza degli abitanti, sarebbero stati privati di quei diritti civici - il legnatico, il seminativo, il pascolo - di cui godevano nel vecchio paese. Da una montagna aspra al mare. Un caso esemplare di perdita dell'identità individuale e collettiva: gli abitanti di Africo infatti non sono più pastori né contadini, odiano il mare e non sono diventati né pescatori né marinai".

Ho diciannove anni. Preparo l'esame di maturità ascoltando la Sinfonia Italiana di Mendelssohn e la Sinfonia Incompiuta di Schubert. L'incongruità della situazione mi è divenuta insopportabile: che senso ha vivere in Calabria stando sempre chiuso in casa, parlare con un ridicolo accento settentrionale e, in generale, far finta di abitare in Mitteleuropa? A questo punto, non è meglio emigrare? Spengo il registratore e accendo la radio. Trasmettono The End dei Doors. C'è l'anniversario della morte di Jim Morrison.

Alla maturità, filosofia non è uscita. Peccato. Mi sarebbe piaciuto portare Kant. Non capisco perché tutti dicono che è un pensatore difficile: a me sembra così naturale, così ovvio. Certo: lo spazio, il tempo, sono forme della nostra mente. Ma, in sé, non esistono affatto.

Spengo lo stereo, aziono la lavastoviglie. E' ora di tornare in ufficio.

(Racconto pubblicato anche su Evulon. Nota: tutti i paragrafi tra virgolette sono tratti dal sito Internet di un mio compaesano, http://www.giuseppemorabito.it tranne l'ultimo che è tratto da Corrado Stajano, L'Italia ferita. Storie di un popolo che vorrebbe vivere secondo le regole della democrazia, Cinemazero, Pordenone 2010, pag. 96).

martedì 26 aprile 2011

Adagio in sol minore

Roma, giugno 1984.

Una folla immensa e silenziosa riempie il centro della città. Un milione di persone, venute da tutta Italia per rendere l'ultimo saluto al segretario nazionale, abbattuto da un ictus durante un comizio. Piazza San Giovanni è troppo piccola. Le bandiere rosse sventolano nel sole, ovunque. Molti piangono.

Mentre il feretro esce dalla sede del partito, un sistema di altoparlanti inizia a diffondere una musica lamentosa, straziante.

L'Adagio di Albinoni.


Venezia, febbraio 1958.

Il freddo umido entra nelle ossa. Due uomini passeggiano lungo le Fondamenta della Misericordia, in mezzo a una fitta nebbia.

"Cusa l'è 'sta spüssa?"

Quello che ha parlato si chiama Mario e viene da Milano.

L'altro è il musicologo Andrea Mocenigo. "Quest'odore - risponde pazientemente all'amico - è l'acqua bassa. Ritirandosi, lascia scoperti i detriti sul fondo del canale. Dopo un po' ci fai l'abitudine".

"Va beh, Andrea, ma che schifo. Cià, mettiamoci al chiuso, ti offro un camparino".

Entrarono in un caffé e si sedettero. "Allora, camerata" disse Mario. "Parlami un po' delle tue ricerche".

Andrea lanciò una rapida occhiata intorno, per accertarsi che nessuno avesse sentito l'appellativo rivoltogli da Mario. Poi rispose: "Se vuoi parlare di politica, andiamo in un altro posto. Qui non è zona nostra". Gli sembrava che, da dietro il bancone, il barista li stesse già guardando male.

"Tranquillo. Niente politica. Sono venuto a Venezia solo per affari. E per rivedere qualche vecchio... amico. Lavoro per casa Ricordi, come sai. Nel tuo caso, unisco l'utile al dilettevole. Saremmo contenti di riaverti come collaboratore. Qualcuno ancora ha presente quel tuo strepitoso articolo del '40, come s'intitolava? L'arte di Verdi nell'era fascista. Poter pubblicare ancora delle robe così..."

"Altri tempi", disse Andrea.

"Altri tempi, già" concordò Mario. "Ma torneranno, torneranno, te l'assicuro... Veniamo a noi. Mi hai scritto di avere delle novità clamorose, no? E alura, tira fuori il rospo".

"No, no", Mocenigo mise le mani avanti. "Andiamoci piano. Novità grosse ancora non ne ho. Continuo a lavorare alla monografia su Vivaldi. Sarà pronta fra un anno o due. E poi c'è l'edizione delle opere di Albinoni, di cui ti ho scritto..."

"Ah, che meraviglia!" lo interruppe Mario. "Come t'invidio! Il barocco... Immergersi in quell'epoca dorata. Allora sì che regnava l'ordine: i re erano re, i nobili erano nobili, e la plebe era plebe! Ognuno al suo posto. Onore, fedeltà e disciplina! Non questa cosiddetta repubblica che c'è oggi, dove anche i figli degli operai vogliono diventare dottori. Per me un Campari e soda, tu cosa prendi?"

Era arrivata la cameriera a raccogliere le ordinazioni. Tornò poco dopo con le bevande. Mario le si rivolse ora con fare mellifluo. "Ma dica, signorina, cosa fa, lei, dopo il lavoro? Se vuole, passo a prenderla. Io sto all'Hotel Silva, ha presente? Vicino piazza San Marco. Un posto di gran lusso, sa? C'è una bellissima buvette, e si potrebbe bere insieme una flûte di champagne d'annata..."

La ragazza non rispose. Lasciò i due aperitivi sul tavolino, e si allontanò mormorando "Ma va' in mona".

"Bella gnocca, eh?" ammiccò Mario al suo amico. "Cos'è che ha detto?"

Andrea ridacchiò. "A una fanciulla / un vecchio come lei non può far nulla. Ecco cosa ti ha detto", rispose.

Mario si rabbuiò. "Lascia perdere il Mozart, quel pirlotto. Solo lui poteva farsi infinocchiare da un depravato ebreo come Da Ponte, al punto da mettere in musica versi così immorali. Se oggi non c'è più religione, è anche per colpa di gente come loro. Ma mi stavi dicendo di Albinoni. Continua".

"Ecco, mi sono immerso nella materia, come dici tu. E sai com'è, mi sono talmente immedesimato... che ho composto un pezzo. Un omaggio, un tributo, chiamalo come vuoi. Un breve adagio, per archi e organo, nello stile di Albinoni. Volevo fartelo leggere. Ecco, ce l'ho qui con me". Mocenigo si chinò, estrasse una partitura manoscritta dalla ventiquattrore e la porse a Mario.

Mario lesse con attenzione. Poi restituì la partitura ad Andrea.

"Allora?" chiese Andrea.

"Allora niente", rispose Mario. "E' bellissimo. E' un capolavoro. Lo pubblichiamo senz'altro. Però, guarda che ti sbagli. Non l'hai scritto tu, questo Adagio".

"No?" disse Andrea, stupito.

"No. Questo è un adagio inedito di Tomaso Albinoni, che faceva parte dei manoscritti del compositore, già conservati alla biblioteca di Dresda, e che tu hai fortunosamente scoperto. Come sappiamo, la biblioteca fu distrutta tredici anni fa, da un criminale bombardamento aereo angloamericano. Pochi, miseri frammenti sono scampati allo scempio, ritrovati fra le macerie. Da essi, tu hai sapientemente ricostruito questo Adagio, che ora sarà restituito alla riverente e commossa ammirazione del pubblico, quale ultima testimonianza di un'epoca di splendore ingiustamente tramontata. Spiegherai tutto nella prefazione alla partitura. Ah, tra parentesi: non preoccuparti per i diritti di copyright. Spetteranno a te, in qualità di arrangiatore. Prevedo che te ne verranno un bel po' di dané".

Andrea Mocenigo rimase senza parole. Poi balbettò: "Ma... ma sarebbe un falso bello e buono! Scusa, chi vuoi che ci creda? E quella roba, che secondo te dovrei scrivere: il 'criminale bombardamento alleato' e via dicendo! Come se la Luftwaffe, invece, sganciasse mazzi di fiori. No, mi rideranno in faccia. Non si può fare, mi spiace".

"Da che parte stai?", chiese Mario, gelido.

"Dalla tua! Ma scusami ancora, Mario. Non ti posso seguire in quello che mi proponi. Non siamo più nel 1940. C'è stata la guerra. L'occupazione tedesca, la gente se la ricorda bene, e oggi come oggi non gli puoi raccontare una storia in cui noi camerati figuriamo come le povere vittime. Senza contare che sarebbe una storia falsa, e prima o poi si verrà a sapere, e allora che figura ci faccio?"

Mario sospirò. Bevve un sorso del suo aperitivo, poi si appoggiò allo schienale. "Senti, Andrea" disse. "La nostra battaglia non comincia e non finisce oggi. Devi capire che noi lavoriamo per il lontano futuro. Hai detto bene: oggi, la gente non è bendisposta verso di noi. Per creare il Nuovo Ordine, il Reich Millenario, abbiamo dovuto procedere con estrema durezza. E, per ora, siamo stati sconfitti. Ma fra venti, trenta o quarant'anni, quando saranno scomparsi coloro che oggi ricordano certi... spiacevoli inconvenienti, allora la nostra Idea tornerà ad affascinare i popoli. Fino ad allora, si tratta di guadagnare terreno, a poco a poco, tenacemente. Partendo anche dai dettagli. E poi, il bombardamento di Dresda c'è stato per davvero, no? Cominciamo col dirlo".

"Sì, ma la storia dell'Adagio trovato fra le macerie è una balla", rispose Andrea.

Mario si spazientì. "Balla, non balla! Chi se ne frega! La verità è ciò che riesci a far passare per tale. Tu offri al pubblico una musica seducente e ben scritta, condita da una storia romantica. Vedrai che ti crederanno. Populus vult decipi, caro mio. Et decipiatur! Il popolo vuole essere ingannato. E allora, lo si inganni! E comunque" continuò Mario "se vuoi pubblicare con noi, queste sono le condizioni. E adesso usciamo, ché mi son rotto gli zebedei a stare qui".

All'uscita del locale, Mario e Andrea furono circondati da una torma di ragazzini in maschera, che improvvisarono un girotondo, e che se ne andarono solo quando Andrea, ridendo, ebbe dato loro qualche monetina. Mario, intanto, ostentava la più completa indifferenza.

"Ma tu dici che l'Adagio piacerà? Non somiglia troppo a Mascagni?", chiese Andrea.

"Ma va là! Il tuo è barocco purissimo, te lo dico io. Farà furore. Suonerà come le campane a morto, contro la robaccia negroide-bolscevica che va di moda oggi. E comunque, Mascagni era dei nostri anca lü".

Si allontanarono nella nebbia, mentre il puzzo di fogna si faceva sempre più forte.

(Pubblicato su Evulon il 21 aprile 2011. Nell'immagine: il bombardamento di Guernica del 26 aprile 1937. Fotografia tratta dalla pagina che ho linkato sopra).

lunedì 28 marzo 2011

Mozart schedato da Buscaroli

Va subito detto che il titolo del libro di Piero Buscaroli, La morte di Mozart (Rizzoli, Milano 1996, pp. 373) è fuorviante. L'oggetto della trattazione di Buscaroli non è, infatti, "la morte di Mozart", bensì gli ultimi dieci anni di vita del grande compositore. L'intento dichiarato di Buscaroli è quello di demolire tutta una serie di leggende, falsità e luoghi comuni che, secondo lui, si sarebbero accumulati intorno alla figura di Mozart ad opera dei suoi biografi otto e novecenteschi: il Mozart di Buscaroli sarebbe infine quello genuino ed autentico, finalmente restituitoci dopo due secoli di menzogne.

Mi sembra che il punto di vista di Buscaroli sia politicamente determinato e che questa componente politica sia un elemento essenziale del suo metodo. Infatti, Buscaroli è un nostalgico dell'ancien régime, né più né meno. Tutto ciò che deriva dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione francese, per Buscaroli, è pura e semplice aberrazione. Buscaroli non accetta nulla della modernità; del feudalesimo, invece, rimpiange ogni aspetto (per esempio anche l'elevata mortalità infantile, p. 261). Questo suo punto di vista radicalmente antimoderno dovrebbe, nelle intenzioni di Buscaroli, garantirgli una completa indipendenza dalle ideologie correnti nella nostra epoca e consentirgli così di vederci più chiaro di ogni altro biografo mozartiano prima di lui.

In altre parole, il libro di Buscaroli non si basa affatto su una ricerca archivistica che abbia prodotto fonti inedite e di prima mano. Si basa, invece, sulla reinterpretazione delle fonti già note, le quali, sotto l'occhio limpido e scevro di pregiudizi di Piero Buscaroli, rivelerebbero alfine quella verità che nessuno, prima di lui, aveva veduto.

Le fonti principali di Buscaroli sono infatti: l'epistolario mozartiano; la raccolta di documenti a cura di Erich Deutsch Mozart. Die Dokumente seines Lebens, Kassel 1961; e le prime biografie mozartiane di Schlichtegroll (1793), Niemetschek (1798), Nissen (1828) e Jahn (1856-59). Sono tutti materiali ben conosciuti e ampiamente utilizzati dalla critica mozartiana. Buscaroli esprime invece il massimo disprezzo per il W. A. Mozart di Hermann Abert (1921), opera considerata fondamentale da tutti ma non da Buscaroli il quale, naturalmente, è anche in costante e aspra polemica con quasi tutta la critica mozartiana novecentesca.

Vediamo allora, più nel dettaglio, qual è il bersaglio polemico della ricostruzione buscaroliana.

Mozart, che all'età di venticinque anni lasciò il servizio dell'Arcivescovo di Salisburgo per trasferirsi a Vienna, dove cercò di mantenersi con i proventi della sua attività di pianista e compositore, è oggi celebrato come il primo grande musicista dell'epoca borghese, colui il quale, per primo, tentò di conquistarsi lo status di libero artista, riscattando così la figura del musicista dal suo ruolo di dipendente delle corti. Nelle parole del sociologo Norbert Elias (1991): "Da outsider borghese al servizio della corte, Mozart combatté fino in fondo, con incredibile coraggio, una battaglia di affrancamento dai suoi padroni e committenti aristocratici. Lo fece di propria iniziativa, per amore della propria dignità di uomo e del proprio lavoro di musicista. E perse la battaglia [...]". Secondo Elias, Mozart perse la battaglia (e la vita) in quanto i tempi non erano ancora maturi per lui: la lotta di Mozart si svolse in una nazione, l'Austria del settecento, che si trovava "in una fase dello sviluppo sociale nella quale i rapporti di potere tradizionali erano praticamente ancora intatti".

Per l'ultrareazionario Buscaroli, questa moderna visione di Mozart come artista rivoluzionario è fumo negli occhi. Con grande insistenza, Buscaroli ci propone invece un Mozart meschino, pavido e conformista, caratterizzato dalla "evidente mancanza di superiori doti intellettuali e morali" (p. 342). "Mai anelò al riscatto sociale e politico della figura dell'artista, cercava un reddito fisso, ma alto" (p. 32). "Il libero mercato dell'arte gli si spalanca, e lui continua a sperare in un impiego a corte, meglio a Vienna, dove potrebbe, tutt'al più, raddoppiare lo stipendio di ora. Uomo libero è solo a parole [...]. I suoi sogni sono quelli di un impiegato" (pp. 183-4).

Tutto il libro di Buscaroli pullula di simili osservazioni, che in verità sono reiterate tanto spesso, quanto poco sono seriamente argomentate. E non potrebbe essere diversamente, dato che, come ho detto sopra, le fonti di Buscaroli sono le stesse dei critici mozartiani che lui tanto disprezza. Se, per loro, queste fonti disegnano una determinata figura e per Buscaroli la figura esattamente opposta, ciò dipenderebbe solo dal fatto che Buscaroli è intelligente e onesto, mentre gli altri autori sono stupidi e/o in malafede.

Un esempio del metodo argomentativo di Buscaroli lo si trova nella trattazione delle dimissioni di Mozart dalla corte arcivescovile di Salisburgo nel giugno 1781. In quella circostanza, com'è noto, il segretario dell'Arcivescovo, un tale conte Arco, per tutta risposta all'insistenza con cui Mozart continuava a chiedergli di accettare la sua richiesta di dimissioni, assestò al musicista un calcio nel sedere. Questo episodio, che ha suscitato l'indignazione unanime di tutta la posterità, viene raccontato da Buscaroli con le tecniche adottate dagli avvocati difensori di chi viene processato per stupro:
A) minimizzare. "Credette di dover ridurre alla ragione il musicista ribelle con la zotica seppur benintenzionata famigliarità elargita a sguatteri e inservienti".
B) Insinuare dubbi sulla veridicità del fatto. "E se fosse tutta invenzione [...]?"
C) Sostenere che la vittima, in fondo, se l'è cercata. "E il giovane genio dal corpo minuto [...] fece tutto quanto poteva per trarlo fuori dai gangheri" (tutte le citazioni sono dalla p. 53).
Il tutto al palese scopo di tessere l'apologia di un sistema sociale, nel quale era possibile che un Mozart venisse preso a calci dallo scagnozzo di un feudatario.

A ciò aggiungiamo il fatto che, della musica di Mozart, Buscaroli parla poco o nulla: al Don Giovanni sono dedicate in tutto 3 (tre) pagine, nelle quali Buscaroli si limita a dirci che Da Ponte copiò il libretto da Giovanni Bertati; e sai che novità! Questo ci dà la misura di quanto la lettura di questo libro possa risultare tediosa e irritante.

Questo, almeno, per le prime duecentosessanta pagine. E' solo quando Buscaroli inizia a parlare degli ultimi mesi di vita di Mozart, che il suo discorso comincia a farsi un minimo interessante. A proposito della genesi del Requiem, Buscaroli propone una tesi che, pur non essendo necessariamente giusta, non è né futile né banale. Secondo Buscaroli (il quale, per una volta, avverte onestamente il lettore di non aver prove di quanto afferma: p. 324), l'incompiutezza del Requiem non sarebbe dovuta alla morte improvvisa del compositore, bensì ad una sua scelta deliberata. Infatti, Mozart fu incaricato della composizione da un nobile musicista dilettante, il conte Walsegg-Stuppach, il quale intendeva appropriarsi della stessa paternità dell'opera: il conte voleva cioè far eseguire il Requiem (dalla propria orchestra di corte) figurandone lui come autore.

Secondo Buscaroli, quando Mozart si rese conto dei termini di questo incarico (che inizialmente aveva accettato per necessità di denaro), maturò un invincibile disgusto per il lavoro che gli era stato commissionato: la sua coscienza artistica e professionale si ribellò all'idea di dover comporre un'opera che non avrebbe mai potuto rivendicare come sua. Sarebbe questo, secondo Buscaroli, il vero motivo per cui il Requiem rimase incompiuto.

Una prova a sostegno della sua ricostruzione sarebbe costituita, secondo Buscaroli (il quale considera il Requiem di Mozart un'opera minore e mal riuscita), dalla stessa scarsa qualità musicale della composizione. Mozart, cioè, sapeva di dover scrivere un'opera che sarebbe andata sotto il nome di un musicista dilettante: perciò la scrisse in modo volutamente sciatto, adoperando ad esempio un "contrappunto opaco, scontato, da manuale" (p. 325), e alla fine si rifiutò senz'altro di completarla, meditandone probabilmente la distruzione.

Buscaroli, però, sembra non rendersi conto che quanto lui scrive in queste pagine finali, a proposito del Mozart autore del Requiem, contraddice in modo stridente quanto egli stesso ha sostenuto nel corso di tutti i capitoli precedenti. Se Mozart, dal 1781 fino all'estate del 1791, era quel piccolo-borghese pusillanime e opportunista che Buscaroli si è sforzato di dipingere, come si spiega questo improvviso scatto di orgoglio e di dignità a pochi mesi dalla morte?

A me sembra, invece, che in queste pagine finali gli occhiali dell'ideologia siano in qualche modo caduti dal naso di Buscaroli, il quale, alla fine, non può a fare a meno di riconoscere a Mozart quelle qualità umane che fin qui gli aveva ostinatamente e faziosamente negato.

Per finire, ho seri dubbi sulla valutazione critica che Buscaroli riserva al Requiem. Non trascurerei il fatto che quest'opera sembra attualmente la più popolare fra quelle del suo autore. Ad esempio, se si digita Mozart nella casella di ricerca di "YouTube", il Requiem è la prima opzione che viene proposta. Senza dubbio, ciò si deve in gran parte al film Amadeus. Ma in parte, secondo me, lo si deve anche alla relativa semplicità di fruizione del Requiem che Buscaroli, a suo modo, evidenzia, pur senza comprenderne le ragioni. Non dimentichiamo che Mozart, poco prima di morire, fu testimone dell'enorme successo del suo Flauto Magico, un'opera scritta per un teatro della periferia di Vienna e destinata ad un pubblico popolare.

Forse Mozart, dopo aver volutamente sfidato il gusto dell'aristocrazia, e dopo l'amara esperienza del mancato sostegno da parte del pubblico borghese, negli ultimi mesi di vita iniziò a intravedere la possibilità di rivolgersi ad un pubblico interamente nuovo, posto al di fuori delle classi dominanti del presente e dell'immediato futuro. E cominciò a orientare la sua scrittura musicale all'obiettivo di conquistare ed educare, se necessario anche calibrando il livello di complessità compositiva, questo nuovo pubblico.

(Trovate la presente recensione anche su Evulon).

mercoledì 16 marzo 2011

Il terremoto di Messina del 1908

Ripubblico qui di seguito una mia recensione (risalente a sei anni fa) al libro di Giorgio Boatti, La terra trema. Messina 28 dicembre 1908. I trenta secondi che cambiarono l'Italia, non gli italiani, Mondadori, Milano 2004, pp. 414, € 18,50.

"Ore 5.20 terremoto distrusse buona parte Messina - Giudico morti molte centinaia - case crollate sgombro macerie insufficienti mezzi locali - urgono soccorsi per sgombro vettovagliamento assistenza feriti - ogni aiuto sarà insufficiente".

E' il testo del telegramma con cui il governo italiano apprese del terremoto di Messina: inviato dal comandante di una nave militare da una stazione telegrafica calabrese alle 14.50 del 28 dicembre 1908, giunse al Ministero degli Interni alle 17.35 dello stesso giorno, cioè dodici ore dopo il disastro.
In questo telegramma la valutazione dei danni è naturalmente molto sottostimata: il terremoto, dell'undicesimo grado della scala Mercalli, distrusse quasi completamente le città di Messina e Reggio Calabria e causò, secondo le statistiche ufficiali, 77.283 morti (in altre valutazioni la cifra oscilla fra le 80.000 e le 140.000 vittime).

A volte, quando ci si sofferma a considerarla, la storia del nostro paese sembra un'ininterrotta sequela di disastri. Ogni generazione ha la sua catastrofe civile da ricordare e anzi spesso più d'una, a volte d'origine naturale e a volte umana. Il copione sembra sempre lo stesso: evento tragico; prime ricostruzioni giornalistiche, concitate e a forti tinte; interviste ai superstiti; il cordoglio della nazione; le autorità dello stato si precipitano sul luogo dell'evento; polemiche sulla tempestività dei soccorsi e sulla loro efficienza; i parenti delle vittime accusano; funerali solenni; ancora polemiche finché i riflettori dei mass-media si spengono.

Questo libro di Giorgio Boatti sul terremoto di Messina si basa in gran parte su uno studio accurato dei giornali dell'epoca. Una prima constatazione è che in essi lo schema che ci è tristemente familiare appare già operante. Il governo di Giovanni Giolitti dovette ben presto difendersi dalle accuse di non aver compiuto in modo adeguato e tempestivo l'opera di soccorso delle popolazioni colpite. In particolare, l'opinione pubblica dell'epoca fu colpita dal fatto che i primi soccorsi organizzati non vennero apprestati da parte italiana, bensì, a partire dalla mattina del 29 dicembre, dagli equipaggi di squadre navali russe e inglesi che casualmente si trovavano nei pressi al momento del terremoto (equipaggi che, secondo tutte le testimonianze, svolsero la loro opera eroicamente). I primi soccorritori italiani, dell'ottavo reggimento dei Bersaglieri, provenienti da Palermo, sbarcarono solo nel pomeriggio inoltrato dello stesso giorno.

Ma la cosa che più colpisce nella reazione all'evento da parte del governo italiano non consiste tanto nella lentezza o inefficienza dei soccorsi, per la quale si possono addurre delle circostanze attenuanti: l'Italia era allora un paese povero, sottosviluppato rispetto alle altre nazioni europee; la stessa tecnologia dell'epoca non consentiva una grande rapidità di reazione; il terremoto danneggiò molto seriamente le infrastrutture e le vie di comunicazione nelle zone colpite; infine non esisteva ancora il moderno concetto di protezione civile e lo Stato italiano non era preparato ad affrontare simili emergenze.

Ciò che realmente sorprende è che fin dall'inizio, il governo e una parte della pubblica opinione sembrarono considerare il terremoto principalmente come un problema di ordine pubblico. Fra le prime preoccupazioni si registrano, infati, il timore delle epidemie e la paura dei saccheggi.

Scrive il quotidiano "La Tribuna" del 2 gennaio 1909: per impedire un'epidemia occorre "compiere l'opera distruggitrice perpetrata dal terremoto: buttare giù quel poco che resta di queste case, buttarlo giù nel modo più energico, più rapido: a colpi di cannone. Far sgomberare i pochissimi superstiti e dalle navi bombardare queste scarnificate vestigia della città (...) non v'è altra via per impedire che il luogo dov'era Messina diventi un centro d'infezione a cui nessuno osi più avvicinarsi". (p. 118). "Il Mattino" del 6-7 gennaio rilancia la stessa idea attribuendone la paternità al Re, mentre "Il Messaggero" del 6 gennaio suggerisce di ricorrere al fuoco: "Si dia in preda alle fiamme [Messina] per purificarla, o si ricostruisca con piccole case come una cittadina giapponese" (p. 119).

E' sconcertante che fra le prime misure suggerite dopo un terremoto, vi sia quella di deportare la popolazione colpita e poi bombardare la città: sembra che nel caso di Messina non si sia arrivato a tanto solo perché, a distanza di molti giorni dalla catastrofe, si continuavano a trovare dei sopravvissuti sotto le rovine. Ma si rimane ancora più stupiti quando si apprende che uno dei motivi che suggerirono queste misure estreme, fu la necessità di preservare dai furti i valori rimasti sotto le macerie e soprattutto i caveaux delle banche.

Il regio decreto del 4 gennaio 1909 stabiliva lo stato d'assedio nei territori colpiti dal terremoto e conferiva i pieni poteri per l'emergenza al generale di corpo d'armata Francesco Mazza (annota Boatti che una diceria popolare fa discendere dal suo cognome l'etimologia della locuzione siculo-calabra "non capire una mazza"). Installatosi con il suo stato maggiore a bordo di una lussuosa nave militare al largo, e senza scendere quasi mai a terra, il generale Mazza provvide a circondare Messina di un cordone sanitario di truppe, cui diede l'ordine di sparare su chiunque dall'esterno si avvicinasse alla città senza lasciapassare. Questo per impedire che bande di saccheggiatori si riversassero sul luogo del disastro.

Ecco alcuni passi tratti dal bando emanato dal generale Mazza il 10 gennaio, riportato integralmente a p. 374 del libro di Boatti: "1 - Sono sospesi fino a nuovo ordine gli scavi delle macerie da parte di privati cittadini, sia per rintracciare cadaveri, sia per recuperare valori. (...) Le persone trovate a scavare saranno considerate come ladri e deferite al tribunale di guerra. [Questo mentre ancora i parenti delle vittime cercavano i loro cari sotto le macerie, n.d.r.] Anche le truppe, nei lavori stradali che compiono, si limiteranno esclusivamente ai lavori di assestamento evitando di eseguire scavi. (...) 3 - E' proibito l'ingresso in città a tutte le persone non munite di regolare permesso rilasciato dall'autorità politica della provincia da cui provengono..."

Il 6 gennaio l'autorità militare ordina di sospendere la distribuzione di viveri ai superstiti. Saranno distribuiti viveri a bordo delle navi, solamente ai profughi che accetteranno d'imbarcarsi per lasciare la città. L'idea, commenta Boatti, è perciò quella di "utilizzare l'arma della fame e della sete per imporre (..) la desertificazione di Messina" (p. 135). Questa cinica soluzione non viene attuata perché, come accennavo sopra, alcuni dei sepolti sotto le macerie si ostinano a farsi ritrovare vivi anche dopo giorni e giorni dal terremoto; ma altresì per le perplessità espresse da una parte della pubblica opinione e anche per le proteste degli stessi messinesi: un'assemblea autoconvocata di cittadini chiede il 19 gennaio la revoca dello stato d'assedio. Stato d'assedio che - osserva con sarcasmo il corrispondente de "Il Mattino" del 6 gennaio 1909 - sembra avere lo scopo precipuo di garantire "il sonno ai morti e la biancheria, gli oggetti e i titoli di banca ai vivi" (p. 137).

In seguito Giolitti giustificò la scelta di dare priorità al recupero dei valori, adducendo il timore di speculazioni al ribasso sulla lira (p. 146). Boatti propone un'altra spiegazione: "La difesa delle proprietà, la guardia ai caveaux delle banche, il salvataggio dei lingotti che mette in secondo piano altri interventi è una linea d'azione adottata, anzi, sbandierata, perché dal disordine - anche sociale - del terremoto emerga alfine una visione dove a prevalere è l'ordine, lo status quo, l'autorità e il prestigio dell'apparato dello Stato. (...) Salvare milioni, o lingotti, dopo tutto è meno complicato che cercare di strappare alla morte, in una gara contro il tempo, migliaia di sepolti vivi" (p.155).

A questo atteggiamento grettamente calcolatore da parte degli apparati dello Stato si contrappone lo slancio di solidarietà manifestato da più parti della società. In poche settimane si raccolgono più di ventun milioni di lire (dell'epoca) in sottoscrizioni, buona parte delle quali provenienti dall'estero. La cosa non manca anzi di creare preoccupazioni nelle alte sfere: non si rischierà di creare l'abitudine all'assistenza, al farsi mantenere dallo Stato, a quello che oggi si chiama assistenzialismo? Sua Altezza Reale il Duca d'Aosta esprime autorevolmente questo cruccio quando afferma che "è immorale mantenere un'orda di vagabondi e creare oziosi" (p. 234).

Non si trattò soltanto di solidarietà finanziaria. Volontari affluirono da tutta Italia per prestare opera di soccorso. Boatti dedica particolare attenzione alla vicenda di uno di essi, il parlamentare parmense Giuseppe Micheli, un deputato cattolico che, arrivato a Messina pochi giorni dopo il terremoto, subito mise in piedi, con la collaborazione dell'Arcivescovo, un "comitato messinese di soccorso", a carattere volontario, che si rivelò un'organizzazione semiufficiale sotto molti aspetti più efficiente di quella statale (pp. 263-68). Un'altra figura che emerge è quella dell'ex sindaco socialista di Catania Giuseppe De Felice Giuffrida, che era stato protagonista pochi anni prima di una delle esperienze politico-amministrative più avanzate della Sicilia dell'epoca: da sindaco della sua città aveva promosso forme di socializzazione dei servizi pubblici (forni municipalizzati, cucine popolari), la cui esperienza risultò ora preziosa per organizzare la distribuzione dei viveri ai superstiti del terremoto (pp. 203-4).

La miseria delle regioni colpite dal terremoto impressionò molti degli osservatori e degli inviati giunti sul luogo della catastrofe. Qualcuno propose dei rimedi; ad esempio il letterato Giovanni Cena suggerì, naturalmente quale misura temporanea, quella di emigrare. "Parecchi anni di duro tirocinio all'estero (...): poi gli emigranti calabresi torneranno altri uomini e non domanderanno più nulla, fuorché il loro buon diritto di cittadini" (p. 381). (Oggi si può dire che noi calabresi abbiamo seguito il consiglio, e che gli "anni di tirocinio" sono stati effettivamente molti, anzi durano tuttora. Sarà che siamo un po' lenti ad imparare?).

Il libro di Boatti non manca di sottolineare l'imprevidenza e anche l'incoscienza generalizzata che indussero i cittadini di Messina e Reggio Calabria (le città che oggi qualcuno vorrebbe unire con un ponte lungo tre chilometri, inutile, dannoso e pericoloso) a costruire tutto, anche gli edifici pubblici, al di fuori delle più elementari regole di sicurezza. Le fotografie che corredano il volume illustrano un panorama di distruzione impressionante, ove emerge, unica costruzione intatta perché edificata con criteri antisismici, il villino di un medico messinese.

Nella sua ricognizione della pubblicistica dell'epoca, Boatti dedica due capitoli ad alcune singolari polemiche: quella (cap. XVII) fra autorità laiche e cattoliche riguardo alla sistemazione degli orfani del terremoto (il Vaticano pretendeva ovviamente che fossero tutti educati "in Cristo" nei suoi istituti), e quella concernente il destino dell'Università di Messina, di cui alcuni illustri cattedratici proposero senz'altro la chiusura, in base alla considerazione che di università ce n'erano fin troppe e che in particolare quelle meridionali erano diplomifici per giovani sfaccendati (pp. 276-7).

Boatti chiude la sua esposizione con un'osservazione suggestiva: la "meglio gioventù" dei volontari del terremoto, poco dopo, buttò via inutilmente la propria carica di idealismo e di amor patrio, la propria volontà di fare e di cambiare le cose, nelle trincee della Prima guerra mondiale. Agli ordini (aggiungo io) di quella medesima classe dirigente ignorante, ottusa, autoritaria, incapace e meschinamente arroccata nella difesa dei propri privilegi, che aveva già dato prova di sé nella gestione ufficiale dell'emergenza-terremoto e che di lì a poco "inventerà" il fascismo.

Questo testo di Giorgio Boatti fa luce su un episodio importante e poco conosciuto della nostra storia nazionale, e lo fa (a differenza della pseudo-storiografia sensazionalistica e superficiale oggi di moda) con grande scrupolosità e metodo: il volume si chiude con ben cento pagine di appendice documentaria e di note al testo. Anche solo per questo sarebbe da raccomandare. Per chi come me proviene da una delle zone disastrate, la lettura di questo libro è irrinunciabile e consente di ritrovare la radice di mali antichi.

Originariamente pubblicato il 22 febbraio 2005, qui.

venerdì 25 febbraio 2011

Stella rossa sull'Europa

"Buongiorno, Anne. Buon anno".
"Buongiorno, Valentin. Buon anno anche a te. Novità?"
"Sì. Un nuovo arrivo. Sabato notte. Hai il colloquio già fissato per le undici. Trovi tutti i dettagli in agenda".
Anne Dupont, psicologa del Centro di Prima Accoglienza di Calais, entrò nel suo ufficio, accese il terminale e consultò la sua agenda elettronica.

Lunedì 5 gennaio 2011, ore 11,00. Colloquio con Monsieur Philip Brasser. Cittadino britannico. Età 38. Celibe. Operazione di salvataggio in mare, Canale della Manica, acque internazionali, 3 gennaio u.s. Condizioni fisiche buone. Non parla francese. Attribuzione provvisoria: codice blu.

Bene, pensò Anne. Un rifugiato politico. Iniziare l'anno nuovo con un codice blu era di buon auspicio. Il colloquio era di lì a due ore. Non c'erano altri impegni per la giornata. Completò con calma alcuni referti clinici iniziati la settimana precedente, fece una partita a Tetris, chattò con alcuni amici in Internet. Quando fu il momento, si aggiustò il make-up e si recò in sala colloqui.

Era una stanza non troppo ampia, arredata come un normale studio specialistico ma con qualche accorgimento per mettere gli ospiti a proprio agio: colori pastello, luci soffuse, lettino basso, comoda poltrona. Su quest'ultima, di fronte alla scrivania della dottoressa, era già seduto il signor Brasser.

"Good morning, Mr. Brasser. Prima di tutto, come sta?"
La domanda non era solo formale. L'uomo appariva molto provato. I tanti capelli bianchi, la pelle del viso magro solcata da numerose rughe, le profonde occhiaie dietro le lenti spesse, lo facevano sembrare più vecchio di dieci anni rispetto alla sua età anagrafica. Al posto degli abiti che indossava al momento del suo salvataggio, fradici e inservibili, gli avevano fornito un nuovo completo, che era tuttavia di due numeri più largo e accentuava la gracilità del suo fisico. Gli tremavano le mani.
Quegli scafisti maledetti, pensò Anne.
"Adesso sto meglio, grazie. Certo, suppongo che la notte passata all'addiaccio su quel canotto non abbia migliorato granché la mia cera. Ma ho fatto una buona dormita, qui da voi, e la vostra cucina è ottima". La sua voce era ferma, con una sfumatura d'ironia. "Solamente, non sono riuscito a procurarmi neppure una sigaretta, dottoressa..."
"Dupont. Ma può chiamarmi Anne. Temo che non ne troverà neppure in futuro. Nell'Unione non se ne producono più. Fino a qualche tempo fa, le importavamo dal suo paese".
"Oh, già, ora ricordo. Le esportazioni cessarono sei anni fa. Troppo pochi fumatori, qui da voi. Non c'era abbastanza profitto. Lo so perché all'epoca lavoravo in un'agenzia di rating".
"Lei è analista finanziario?"
Il signor Brasser rise. "No. Laureato in agraria. Da Troody's ero operatore al call center. Ogni grande compagnia ha il suo. E' la mansione che ho sempre svolto, durante tutta la mia carriera. Ho lavorato per almeno trenta società diverse, ogni volta per non più di sei mesi. Si imparano tante cose, sa?"
"Non ho dubbi. Ma veniamo al punto. Lei ha chiesto lo status di rifugiato politico. Data la sua provenienza, certamente la sua richiesta sarà accettata. Lei diventerà fra breve, a tutti gli effetti, cittadino dell'Unione delle Repubbliche Socialiste d'Europa. Già adesso, comunque, lei è libero di circolare in tutto il territorio dell'Unione, ed eventualmente anche di tornare da dove è venuto..."
"No grazie! Non ci tengo affatto".
"Dicevo per dire. In genere, qui da noi i rifugiati si integrano abbastanza in fretta. Tuttavia, non si può escludere che, all'inizio, lei si trovi un po' spaesato. Il nostro sistema sociale è molto diverso da quello da cui lei proviene. A sua richiesta, lei può fruire di adeguata assistenza psicologica e culturale, per superare eventuali difficoltà di adattamento. In questa fase iniziale, se vuole, mi consideri pure come suo referente".
"Oh. E quanto dura questa... fase iniziale?"
"Può finire anche subito, se crede. L'unico suo obbligo, se intende rimanere nell'Unione, è di iscriversi nelle liste di collocamento e nelle graduatorie per gli alloggi. Non credo che le sarà difficile trovare un lavoro e una casa. Se lei non ha esigenze particolari, penso che troverà una sistemazione accettabile nel giro di un paio di settimane. Fino ad allora, comunque, può rimanere qui, o spostarsi in una delle altre strutture di prima accoglienza nel territorio dell'Unione".
"Sembra magnifico. Dov'è la fregatura?"
"Ecco. Era proprio ciò che intendevo. Non c'è nessuna fregatura, per quanto lei sia abituato a pensare che debba per forza esserci. Non pretendo che lei mi creda. Presto se ne accorgerà da sé".

Non c'erano straordinari da fare, quel giorno. Alle tredici, Anne spense il computer, salutò i colleghi che arrivavano per il turno pomeridiano e, senza passare dalla mensa, prese l'elio-tram che, serpeggiando silenziosamente lungo la costa, la portò a casa sua in dieci minuti. Era una magnifica giornata di sole. Il mare era inusualmente calmo, in quei giorni. Una fortuna, per Brasser. Aveva evitato il triste destino di tanti boat-people che partivano clandestinamente dalla riva inglese ma non riuscivano a raggiungere i nostri mezzi di soccorso nelle acque internazionali.

Anne abitava da sola. Si preparò un leggero pranzo macrobiotico, poi un caffé d'orzo. Accese la radio; la spense. Si guardò nello specchio del soggiorno. Sorrise. Tutto sommato, si piaceva. Si chiese come sarebbe stato il suo sembiante, alla sua età, se anziché in Europa continentale fosse vissuta in quell'inferno che doveva essere Londra. I profughi le avevano raccontato storie orribili. Inquinamento, degrado. Se andava bene, orari lavorativi di dieci o dodici ore. Altrimenti, la disoccupazione, l'emarginazione e la pazzia. Oppure, per una ristretta minoranza, la ricchezza e il potere, ma a costo di rinunciare a qualsiasi barlume d'umanità. Un'altra forma di follia, in fondo.

Mercoledì 7 gennaio, ore 10,00. Secondo colloquio con Monsieur Brasser.

Quella mattina l'aspetto di Mr. Brasser era molto migliorato. Anne glielo disse.
"Grazie, Dottoressa. Lei è gentile quanto bella".
Anne Dupont ignorò il complimento.
"Se ho chiesto un nuovo colloquio" continuò Brasser, "non è per ottenere assistenza psicologica".
"Davvero? E perché, allora?"
"Ho due domande da porle".
"Le risponderò, se posso. Ma prima, permetta che le faccia io una domanda. Cosa sa, lei, dell'Unione?"
"Poco, in realtà. So che dapprima ci fu la Rivoluzione d'Ottobre, in Russia, nel 1917. Poi, tra il '18 e il '20, il capitalismo fu abbattuto in Germania, in Ungheria e in Italia. In rapida successione, tutte le colonie europee in Asia e in Africa conquistarono l'indipendenza. L'India nel 1925, la Cina nel '27, e così via. Poco dopo fu la volta dell'Algeria e del Marocco, e a quel punto la rivoluzione scoppiò anche in Francia e in Spagna. Alla fine degli anni '30, tutta l'Europa continentale era socialista.
Frattanto, il crollo di Wall Street nel 1929 aveva gettato l'America nella crisi più nera. Le elezioni presidenziali del 1940 furono vinte da Charles Lindbergh, un fanatico antisemita che instaurò negli U.S.A. una dittatura razzista, appoggiata dal grande capitale. Presto quel regime si circondò di una serie di stati-satellite che coprivano tutta l'America del Sud e del Nord.
Negli anni '80, quelle dittature iniziarono ad implodere, dapprima in America Latina e poi in Canada. Quando nel 1989 cadde il Muro di Tijuana, finalmente il capitalismo crollò negli stessi Stati Uniti. Da allora, secondo la nostra propaganda, il Regno Unito di Gran Bretagna è rimasto l'ultimo baluardo del libero mercato e della civiltà, contro la barbarie socialista che ha travolto tutto il resto del globo. Questo è quanto".
"Bene - disse la dottoressa - a parte la faccenda del baluardo, il quadro storico è corretto. Non le sarà stato facile ricostruirlo..."
"No, infatti. Da noi, formalmente, la cultura è libera, e ognuno può leggere ciò che vuole. Si possono prendere in prestito, nelle poche biblioteche rimaste, anche testi di Marx o di Lenin, e persino di Fabio Volo. Non è vietato. Di fatto, però, ci sono materie che non conviene approfondire troppo. Se si viene a sapere che lei fa certe letture e che ha determinate idee (e si viene a sapere sempre), non speri di trovare lavoro tanto facilmente. Io me la sono cavata con i call center, solo perché le mie origini non sono troppo umili. Quando avevo vent'anni, i miei riuscirono persino a mandarmi all'università. Certo, oggi non potrei più frequentarla. Da allora le rette sono decuplicate."
"Ah, lei ha letto Fabio Volo? Complimenti. Da noi, molti lo considerano un autore troppo difficile".
"Sì, è molto rigoroso e denso, ma se si ha tempo da dedicargli, è un pensatore affascinante. Le consiglio la Critica del tempo unidimensionale, se non l'ha ancora letta. A me ha aperto la mente. In realtà, uno dei motivi per cui mi sono deciso ad espatriare è che anche studiare per conto proprio da noi è diventato impossibile. Troppo costoso, da quando il dizionario è stato privatizzato".
"Il dizionario?"
"Sì. Tutti i sostantivi che iniziano per vocale appartengono alla Mircosoft. Quelli che iniziano per consonante sono del gruppo Murdogh. Gli avverbi sono di Merdaset, e così via. Per leggere o per usare comunque le parole bisogna pagare il noleggio ai legittimi proprietari. Quando lei scrive una e-mail, oppure quando chatta o quando telefona, un sistema di contatori automatici calcola la cifra e l'addebita sul suo conto. Ottimo sistema, fra l'altro, per controllare i contenuti della comunicazione. Io, per esempio, ho fatto quindici giorni di carcere per uso illecito di marchio registrato, la volta che in una mia mail ho scritto che la Cocca Colla mi faceva schifo".
"Senta, Mr. Brasser. Quali sono i suoi progetti? Cosa intende fare, ora che è venuto qui da noi?"
"Primo, togliermi una curiosità che mi ha tormentato a lungo. Ed è la prima delle due domande che volevo farle, si ricorda?"
La dottoressa Dupont sbuffò. "Va bene. Spari".
"La domanda è: perché non ci avete invaso? Come avete potuto lasciarci a mollo in quella fogna?"
Anne si appoggiò sullo schienale della sedia. "Beh, alcuni partiti in seno all'Internazionale erano per dichiarare guerra. Ma infine prevalse l'idea che il socialismo non può essere imposto con i carri armati. Se ci avessero attaccato, ci saremmo difesi. Per fortuna non accadde. Oggi, poi, molti sostengono che una pluralità di sistemi sociali diversi non è necessariamente un male. In India, in Giappone e in Sud America, dove la transizione al comunismo è molto avanzata, stanno già smantellando le strutture dello Stato, per sostituirle con vari tipi di organizzazione non statuale. In Europa e in Africa ci troviamo ancora nella fase socialista, in vari stadi di sviluppo a seconda dei territori. Forse è bene che ci siano delle zone dove ancora vige il capitalismo."
"Sarà un bene per voi, che ci osservate dall'esterno come se fossimo allo zoo! Ma per noi che siamo in gabbia è un altro discorso".
"Lei ora non è più in gabbia. Comunque, mi sembra che il suo atteggiamento nei confronti del suo paese d'origine sia un po' troppo negativo, non crede?"
"Mi dica lei cosa ci vede di bello, in quel letamaio", ribatté Brasser.
"Beh, che so... Avete una scena musicale molto vivace. Un sacco di gruppi pop, rock, punk, post-punk... Wim Wenders ci ha fatto anche un film. Poi, comunque, il vostro sistema ha ancora una base di consenso popolare".
"Si riferisce a West End London Social Club, vero? Quel film mi dà la nausea! Le televisioni del regime lo replicano senza tregua. L'unico film d'autore trasmesso in prima serata, e senza interruzioni pubblicitarie."
"Ecco, ad esempio - lo interruppe la dottoressa - Perché lei parla di televisioni di regime? Da voi ci sono sei o sette canali, se non sbaglio, tutti privati e in concorrenza fra loro..."
"... e trasmettono tutti le stesse schifezze. Non si distinguono l'uno dall'altro. Anne, lei non ha capito: da noi l'economia è allo sfascio, la società è in piena decadenza, la cultura è morta e sepolta. L'unica attività che va a gonfie vele è la manipolazione del consenso per mezzo dei mass-media. Quella è l'unica industria che non conosce crisi!"
"Non volevo farla arrabbiare. Si calmi. Lei ora è al sicuro. Andrà tutto bene. Respiri profondamente, e mi faccia la seconda domanda che voleva pormi".
"Mi scusi. La domanda è questa. Lei è libera stasera? Ho letto sul giornale che in un cinema d'essai a Dunkerque proiettano L'Atalante di Jean Vigo. E' una vita che desidero vedere quel film, e mi chiedevo se... lei volesse venire con me a vederlo, ecco."


Pubblicato su Evulon in due puntate: la prima il 7 gennaio 2011 qui, e la seconda il 12 gennaio 2011, qui.

martedì 8 febbraio 2011

La rivoluzione russa

La mattina del 20 settembre 1871, il Maestro Franz Liszt si esercitava al pianoforte nello studio della sua sontuosa magione di campagna vicino Budapest, quando fu interrotto da un confuso e concitato vociare proveniente dal portone d'ingresso.

"Che succede, Pierre?" chiese mentre raggiungeva il suo maggiordomo, il quale, bloccando con il suo corpo l'accesso alla casa, stava palesemente cercando di convincere un ospite indesiderato ad andarsene.

Quando Liszt, avvicinatosi dietro le spalle del suo domestico, poté scorgere l'aspetto dell'intruso (un uomo sui sessant'anni, calvo, barbuto, che sembrava assai malmesso, ma parlava un francese forbito con marcato accento parigino), quest'ultimo troncò subito, lasciando una frase a metà, il suo litigio con Pierre e, volgendo speranzoso lo sguardo al padrone di casa, così lo apostrofò:

"Maestro Liszt! Maestro! Vi prego, degnatevi di concedere udienza ad un vostro grande ammiratore, giunto or ora dalla Francia solo per avere l'inestimabile onore di fare la Vostra conoscenza!"

"Padrone!" diceva intanto il maggiordomo, "lasciate che cacci via a calci nel sedere questo vagabondo che pretende di farsi ricevere da Voi! E' inaudito! Come se qualsiasi pitocco potesse..."

"Va bene, Pierre, lascia pure entrare Monsieur... di grazia, come vi chiamate?"

Il viso dello strano ospite si rasserenò. "Mi chiamo Eugène Pottier. Da Parigi. Poeta. Per servirvi. Sapevo che avreste... oh, grazie, mille grazie, Maestro!"

"Potete chiamarmi semplicemente Padre. Come forse saprete, non sono che un umile servitore di Santa Romana Chiesa... Ma accomodatevi nel mio studio, ve ne prego, e raccontatemi di voi..." diceva Liszt mentre accompagnava il suo ammiratore lungo il corridoio. "Venite da Parigi, avete detto?", qui il musicista scoccò uno sguardo sospettoso sul suo interlocutore. "E dove siete diretto, se posso..."

Mentre Liszt tornava a sedersi al suo pianoforte, Pottier si accomodò su un'ampia poltrona disposta in modo da fronteggiare il lato destro dello strumento. Come in una sala da concerto, pensò Pottier un po' a disagio. "Maestro, cioè scusatemi, Padre. Avete già capito. Sono un combattente della Comune. Sono in esilio, ramingo per l'Europa, da ormai quattro mesi. Ma non voglio annoiarvi con il racconto delle mie tribolazioni. Sono venuto qui, attratto dalla vostra fama di grande artista e di uomo già attento alla questione sociale, perché ho un testo, da me composto, che vorrei chiedervi di porre in musica".

Ci furono alcuni secondi di silenzio, durante i quali le palpebre di Liszt si aprirono e si chiusero spasmodicamente per una ventina di volte. "Monsieur Pottier... vi rendete conto, spero, del rischio a cui state esponendo voi stesso e me. Mi è difficile comprendere come siate potuto giungere fin qui dalla Francia. Ma, che la vostra sia stata fortuna o incoscienza, sappiate che la polizia asburgica non è affatto indulgente con quelli come voi, né con chi dà loro rifugio."

Pottier si raddrizzò sulla poltrona. "Né fortuna, né incoscienza, Monsieur Liszt. Siamo stati sconfitti, è vero. Ma abbiamo compagni ovunque, pronti a dare il loro silenzioso contributo alla Causa. E' grazie alla loro solidarietà che sono riuscito a sopravvivere e ad arrivare a voi. La musica che porto con me" - a questo punto Pottier tirò fuori da una tasca della giacca un fascicolo spiegazzato, ingiallito e sgualcito, e lo tese a Liszt - "mi induce a confidare anche nella vostra solidarietà".

Sempre più stupito, ma senza offuscare la politezza dei suoi modi da gentiluomo, il musicista prese l'opuscolo che lo strano visitatore gli porgeva. Era uno spartito a stampa che recava sopra il pentagramma il titolo Lyon e il motto: Vivre en travaillant, ou mourir en combattant. Che si potrebbe tradurre, a un dipresso: Vivere del proprio lavoro, o morire combattendo.

"Dove l'avete trovata?" chiese subito Liszt. "Questa composizione non fa più parte della raccolta delle mie opere. Non viene più ristampata da..."

"Dal 1837" lo interruppe Pottier. "Me la regalò mio padre, il giorno del mio ventunesimo compleanno. Mi spiegò che un grande musicista l'aveva composta per celebrare il ricordo della rivolta degli operai disoccupati di Lione. Mi disse: se vuoi davvero fare l'artista, prendi esempio, figlio mio, e ricordati sempre da quale parte della barricata devi stare!"

Liszt guardò fisso il suo ospite, che ricambiava lo sguardo con fermezza. Poi sospirò. "Monsieur Pottier, i tempi sono cambiati. Persino quella testa calda del mio amico Wagner se n'è reso conto, ed è passato (come direste voi) dall'altra parte della barricata. L'epoca delle rivoluzioni è finita. Per sempre. Anche voialtri, col vostro folle tentativo laggiù in Francia, lo avete dimostrato. Datemi retta: la vostra cosiddetta questione sociale non ha alcuna soluzione. Non su questa terra, almeno. La sola cosa che posso fare per voi è scrivere due righe al priore del convento francescano che si trova a una lega da qui. E' mio amico. Vi darà ricetto e ospitalità, fino al giorno in cui Dio, nella Sua infinita misericordia, illuminerà la vostra mente, come già fece con la mia. Allora anche voi comprenderete, e vi rassegnerete alla Sua volontà".

Pottier rimase in silenzio. Poi fece per rimettere in tasca l'altro foglio di carta che ne aveva tratto poco prima e che stava per consegnare al grande musicista. Ma gli tremava la mano e, senza che lui se ne accorgesse, il foglio cadde per terra. Infine disse: "Bene, Monsieur Liszt. Vi chiedo scusa per l'incomodo e per il rischio che vi ho fatto correre. Mi ero sbagliato sul vostro conto. Ora non vi importunerò ulteriormente e, col vostro permesso, riprenderò il mio viaggio."

Stava per uscire senz'altro dallo studio di Liszt, ma quest'ultimo lo richiamo: "Aspettate, Monsieur Pottier. Non fatemi il torto di rifiutare la mia ospitalità, almeno sino a domattina... Tra poco sarà servita la colazione. Frattanto, accomodatevi, e siate così gentile da attendere che abbia finito i miei esercizi. Fra l'altro, suono meglio quando ho un pubblico ad ascoltarmi. Posso chiedervi inoltre, nuovamente, qual è la meta del vostro viaggio?"

Eugène Pottier si risedette. "Credo che andrò in Russia. C'è molto lavoro da fare, laggiù".

"In Russia!?" esclamò Liszt. Stava per aggiungere: voi siete pazzo, ma si trattenne. "Voi non sapete quel che dite! Ogni giorno, ogni giorno lo Zar incarcera, spedisce in Siberia o manda sul patibolo gente come voi! Ecco, guardate" - Liszt prese in fretta dallo scrittoio una rivista - "guardate questo giornale che mi è arrivato ieri da San Pietroburgo. Sapete leggere il cirillico? Ecco l'elenco dei terroristi che sono stati impiccati il mese scorso per avere cospirato contro la monarchia: Rodion Raskolnikov, Nikolaj Stavrogin, Aleksandr Uljanov... Va avanti per un'intera pagina! E voi volete andare in Russia?"

Pottier ribatté con calma: "Terroristi, avete detto? Uhm... no, non è questa la strada. Noi vinceremo, ma seguendo un altro cammino."

"Ah, sì? E quale, se mi è concesso chiederlo?

"Non lo so. Forse la strada non c'è. Ma so che c'è da camminare".

Liszt sospirò. Guardò Pottier. Poi guardò il giornale russo. Poi guardò il suo pianoforte. Infine ci si sedette e, senza dire niente, attaccò a suonarlo.

Suonava già da un quarto d'ora, e le tortuose armonie della Sonata in si minore si dipanavano con sicurezza sotto le sue dita, come un filo di lana in un labirinto, quando Liszt sentì un suono inconfondibile provenire dalla poltrona del poeta. Liszt portò a termine l'esecuzione della Sonata, poi si alzò dal pianoforte e risistemò delicatamente il poggiatesta imbottito sotto la tempia di Pottier. Quest'ultimo smise di russare, ma non si svegliò. Poi il musicista si chinò a raccogliere il foglio di carta che era caduto dalla tasca di Pottier. Si risedé al pianoforte e lo lesse. Era scritto in versi e iniziava così:

"Debout, les damnés de la terre
Debout, les forçats de la faim!
La raison tonne en son cratère
C'est l'éruption de la fin.
Du passé faisons table rase.
Foules, esclaves, debout, debout!
Le monde va changer de base.
Nous ne sommes rien, soyons tout!"


Il poema andava avanti su questo tono per un'altra decina di strofe. Liszt lo lesse con attenzione. Poi sbuffò forte col naso, mise il foglio da parte e si rimise al piano. Attaccò a suonare una sua composizione che s'intitolava Funérailles. Si interruppe dopo poche battute. Poi, per la prima volta dopo decenni, dalla cassa armonica rintoccarono le possenti note iniziali di Lyon. Ma anche questa esecuzione fu lasciata a metà.

Liszt si prese la faccia tra le mani. Cosa gli stava succedendo?

Infine il musicista sembrò distendersi. Riprese in mano il foglio con la poesia di Pottier e lo pose sul leggìo. Iniziò ad improvvisare. Si udì una melodia piuttosto bella, allo stesso tempo vivace e solenne, in ritmo giambico. (Molto tempo dopo, qualcuno l'avrebbe descritta come una via di mezzo fra Oh, my darling Clementine e La cucaracha).

Subito iniziò a variare. Mentre un ritmo lento, profondo e pauroso rombava nella parte sinistra della tastiera, la melodia si trasformò in un canto popolare slavo che sembrava provenire dall'inizio dei tempi.
Poi il ritmo si fece più veloce, incalzante e sincopato, come di tamburi africani, mentre la melodia, stranamente deformata in semitoni, diede l'allucinante impressione di provenire non più da un pianoforte, ma da una tromba con sordina, o da qualche altro strano strumento a fiato non ancora inventato.

Poi ancora la stessa melodia, resa esile, sottile e tintinnante, si stagliò nelle zone alte della tastiera, sullo sfondo di colpi molto distanziati, come di un gong, che provenivano dalla mano sinistra. Senza soluzione di continuità, questo tintinnio si tramutò nel canto di un muezzin. Poi fu come se, prodigiosamente, tutte queste versioni della stessa identica melodia risuonassero insieme. Pottier, che nel frattempo si era svegliato, non credeva ai propri occhi. Le mani di Liszt si muovevano ad una velocità sovrumana, producendo una fittissima gragnuola di note di ogni altezza, che scemava e poi di nuovo s'intensificava, fino a scoppiare in un'onda di energia di terrificante violenza. Infine, mentre le ultime risonanze dell'esplosione ancora si dissolvevano, la melodia iniziale ritornò piano, semplice ed infantile, lenta, simile ad un carillon che suonasse una ninna-nanna.

La straordinaria esibizione di Liszt aveva intanto richiamato tutta la sua servitù, che si era raccolta ad ascoltare in un piccolo drappello dietro la porta dello studio: erano anni che non lo sentivano suonare a quel modo. Fra di loro, c'era una famigliola composta da una giovane coppia con la loro bambina di tre anni.

"Hai sentito, Sandor?" disse la moglie. "Tu dicevi che il vecchio si era ormai completamente rincitrullito..."

"Sì, Hannah, te lo confermo: il vecchio si è totalmente rimbecillito. Ma per sua fortuna, le mani ce le ha ancora buone. Vieni, Milena!" prese in braccio la sua figlioletta, "ascolta. Un giorno anche tu dovrai suonare così".

Pubblicato il 7 ottobre 2010, qui: http://www.evulon.net/news.php?extend.3549

giovedì 3 febbraio 2011

Radici

"Sai" dico, "sono scaduti i diritti d'autore sulle opere di Freud".
E' domenica e sono le nove del mattino. Anna sa che, prima di colazione, non sono in grado di dire nulla che abbia un senso compiuto. Se è di buon umore, mi asseconda nel mio delirio. Oggi è di buon umore.
"Perché?", mi risponde. "Vuoi cominciare a tradurre Freud?"
"Magari. Purtroppo non so il tedesco. No, è per spiegare come mai mi sono alzato così presto. Ieri pomeriggio sono entrato in libreria e ho visto che la Newton Compton ha pubblicato questa edizione economica del saggio di Freud su Mosè..."
"Quello sul Mosè di Michelangelo? Ma non l'avevi già letto?"
"No, non quello sulla statua. E' una monografia proprio su Mosè il personaggio biblico. E' l'ultima grande opera di Freud, pubblicata nel 1938, un anno prima della morte. Non l'avevo ancora letta, perché l'edizione Bollati Boringhieri costa una barbarità e non mi andava di prenderla in prestito in biblioteca. Sai, i libri di Freud sono di quelli che voglio possedere. Comunque niente, ieri l'ho comprato e l'ho finito proprio poco fa. Senza zucchero, il tuo caffellatte, vero?"
"Tre cucchiaini, grazie".
"Mi prendi in giro?"
"Certo. Ma raccontami un po' questo libro, sono curiosa. E' assurdo come l'altro, quello sulla statua di Michelangelo? Quello dove Mosè, di ritorno dal Sinai, vedeva il suo popolo adorare il vitello d'oro, s'incazzava e stava per spezzare le tavole della legge, ma subito si tratteneva, e proprio in quel momento Michelangelo era lì che lo 'fotografava' con lo scalpello, e dietro un cespuglio c'era il professor Freud, col suo taccuino, che analizzava l'intera performance..."
"Dai, non essere così cattiva. Diciamo che, in quel saggio, Freud ha dato una sua interpretazione, un po' audace, di una celebre scultura rinascimentale. Comunque anche W. H. Auden, in una sua poesia, ha scritto che Freud a volte era assurdo e che ciò non diminuisce affatto la sua grandezza".
"Sarà. Intanto neppure il tuo Freud è riuscito a spiegare ad Auden la verità sull'amore".
"Tesoro! La verità sull'amore non la conosce nessuno. Tranne tu ed io, naturalmente".
"Naturalmente. Ma non mi hai ancora detto cos'ha di tanto speciale questo libro, che ti ha buttato giù dal letto poco dopo l'alba".
"E' presto detto. Hai presente Mosè, no? Il patriarca, il fondatore della religione ebraica, il profeta che guidò il suo popolo nell'esodo dall'Egitto verso la Palestina, che ricevette da Dio i dodici comandamenti, eccetera. Bene, Freud sostiene che Mosè, in realtà, non era affatto ebreo. Era egiziano".
"Ma va'?"
"Proprio così. Secondo Freud, Mosè era un nobile, o forse un alto sacerdote egiziano, seguace del dio Aton. Come ricorderai, il faraone Akhenaton aveva tentato di introdurre in Egitto il monoteismo, sostituendo al culto degli dèi la religione dell'unico dio solare Aton. Ma la sua riforma religiosa, molto avanzata per quei tempi, non ebbe fortuna. Quando Akhenaton morì, il politeismo riprese il sopravvento in Egitto. Il clero, che era stato represso ed esautorato da Akhenaton, morto il faraone, si vendicò ferocemente. Fu una reazione terribile: tutte le tracce del culto di Aton furono spazzate via. Persino il nome Aton fu cancellato dai monumenti".
"Sì, mi ricordo. Anche il faraone Tutankh-Aton, il giovane erede di Akhenaton, dovette cambiare nome, riconvertirsi alla vecchia religione e chiamarsi Tutankhamon. E forse neanche questo bastò a salvargli la vita, poverino! Probabilmente lo ammazzarono e lo chiusero nella tomba con quella bellissima maschera funebre tutta d'oro..."
"...quella che abbiamo visto cinque anni fa al museo del Cairo..."
"... durante il nostro viaggio di nozze. A proposito, fra poco è il nostro anniversario, Tato. Dove andiamo a festeggiarlo?"
"Mah, in Egitto ci siamo già stati. Ti porto a Vienna, a visitare la casa di Freud?".
"Anche a Vienna ci sono già stata".
"Ma io no. Comunque, stavo dicendo: Mosè era un fedele del dio Aton. La nuova religione gli piaceva proprio, e non si rassegnò alla restaurazione politeista. Era in contatto con questa popolazione di nomadi, che vivevano nel deserto, ai margini della società egiziana, chiamati Habiru...".
"Gli Ebrei?"
"Proprio loro. Mosè ne fece il suo popolo. Li convertì alla religione monoteista, diede loro nuove leggi, insegnò loro tutto ciò che sapeva, e li condusse con sé nell'esodo fuori dall'Egitto, verso la terra promessa."
"Ciumbia! Sembra una puntata di Voyager. Quali altre sensazionali rivelazioni ci sono, nel tuo libro? Nel senso: Mosè era egiziano, e poi? Shakespeare era siciliano? Le sinfonie di Mozart le ha scritte un veneto? Atlantide altro non era che la Sardegna? E qualcosa sul Graal? Non dirmi che non c'è niente sul Graal. Cioè, scusa, Tato, ma è una teoria un po' delirante..."
"Sshh! Se ridi così forte, svegli la bambina. Sì, hai ragione, è delirante. Proprio in ciò consiste la genialità di Freud. Lui ragionava come i suoi pazienti. Altrimenti non sarebbe mai riuscito a guarirli, no? Tramite lui, la Follia torna a parlare, dopo tre secoli di censura... E lascia perdere Voyager: non c'entra niente. Freud credeva in ciò che diceva, e non gli interessava fare audience".
"Boh. Ma li guariva, i suoi pazienti?"
"Certo che li guariva! Guarda, mi hai fatto talmente arrabbiare che mi sono mangiato tutti i pistokeddos".
"I savoiardi di Atlantide? Ma se te ne mangi un'intera confezione ogni mattina. Sei forte, Tato. Però spiegami una cosa. Allora, siamo nel 1938. Mezza Europa è sotto dittature fasciste, Hitler sta per annettersi l'Austria, lo stesso Freud deve scappare a Londra per sfuggire alla persecuzione, e in questa situazione tragica per il suo popolo, il professore non trova di meglio che pubblicare un libro dove sostiene che il fondatore dell'ebraismo non era ebreo? A me pare una mezza vigliaccata, non capisco come fai a parlarne con tutto questo entusiasmo".
"Ma caspita, Anna, è proprio questo il punto! Senti: chi ha vinto le ultime elezioni?"
"Non capisco cosa c'entra".
"Come, che c'entra? Ma lo senti, quello che dicono? 'Padroni a casa nostra. Ognuno a casa sua. Il Suolo. Il Sangue. La Razza. Le Tradizioni. Le Radici. Il Territorio. Radicarsi nel Territorio'... Dio, quanto ce la menano co' 'sta storia del territorio! Tutti a ribadire come un disco rotto che bisogna Radicarsi nel Territorio, come se non fossimo esseri umani, ma olmi, o platani, o che so io. E come se non fossero stati proprio loro a devastarlo e distruggerlo, 'sto cazzo di territorio, da quarant'anni in qua, a furia di capannoni e svincoli e tangenziali e inceneritori e ripetitori, centri commerciali e colate immonde di cemento, fabbriche aperte e poi chiuse, e sempre zero solidarietà, zero giustizia, zero cultura, zero arte e zero umanità... Talmente spaventati e abbrutiti e rimbecilliti da questo schifo che loro stessi hanno prodotto, da non saper fare altro che cercare spasmodicamente qualche capro espiatorio, cui far scontare tutta la loro bile e la loro frustrazione... E prima i meridionali, e poi i tossici, e poi gli albanesi, e ora gli islamici..."
"Adesso sei tu che rischi di svegliare la bambina".
"Sì. Scusami. Preparo un altro caffè. O preferisci un po' di spremuta d'arancia?"
"Spremuta, grazie. Quando parli di quelli là, mi sembri tuo padre".
"Che cosa brutta che hai detto..."
"Perché? Mi sta simpatico, tuo padre. Ma non mi hai ancora spiegato cosa c'entra tutto questo con Freud".
"Niente, tranne il fatto che tutta quella ripugnante retorica del Sangue e del Suolo era esattamente la stessa di cui si riempivano la bocca gli antisemiti al tempo di Freud. Sai cosa dicevano? Questo, dicevano: che ogni razza ha un proprio suolo d'origine, a cui è legata da un vincolo spirituale e mistico; che la qualità del suolo determina la qualità della razza; che gli ebrei non hanno patria, non hanno territorio e quindi non hanno dignità, sono nomadi e sbandati, vivono da parassiti degli altri popoli, eccetera eccetera."
"Beh, oggi gli ebrei ce l'hanno, il loro Stato".
"E infatti i razzisti di oggigiorno non se la prendono più tanto con gli ebrei (almeno per ora), quanto soprattutto con gli zingari e con i migranti. Ma gli argomenti sono più o meno gli stessi. Ed è contro questi argomenti che Freud mette in campo il suo Mosè. Considera questo: gli dèi che le popolazioni del Medio Oriente veneravano, a quell'epoca, erano divinità nazionali; ogni popolo aveva le sue, e queste facevano tutt'uno con il loro territorio. Erano divinità guerriere, rozze, sanguinarie, che accompagnavano ciascun popolo nella sua lotta per la supremazia sugli altri popoli."
"Ma era proprio così o lo dice Freud?"
"Non lo so. Non m'intendo di storia delle religioni. Comunque, Freud sostiene che il dio di Akhenaton e di Mosè era un dio molto diverso dagli altri dèi suoi contemporanei. Era un dio illuminista, per così dire. Anzi, quasi kantiano. Pacifista. Un dio universalista: non gli importava la nazionalità dei suoi fedeli. Non gliene fregava niente di cerimonie, riti, preghiere, statue o amuleti. Non pretendeva templi dove essere adorato, né una casta di sacerdoti per servirlo. Nemmeno prometteva alcuna vita dopo la morte. A questo dio, importava solo una cosa: che ci si comportasse bene. Che si vivesse una vita secondo ragione, verità e giustizia. Tutto qui. E' questa, secondo Freud, l'essenza del monoteismo ebraico: solo una personificazione della Ragione e della legge morale. L'aspetto etnico o nazionale o 'razziale' è così poco importante, nella concezione freudiana del monoteismo, che lo stesso fondatore dell'ebraismo non è ebreo. E allora il paradosso è che, con questo libro, l'ateo, scientista e razionalista Freud ha reso alla religione e alla cultura dei suoi padri l'omaggio più elevato che per lui fosse concepibile..."
"Bello. Ma è tutta una contraddizione. Prima non hai detto che tramite Freud la follia trova finalmente voce? Adesso te ne esci con questo panegirico della Ragione illuminista. Poi, scusa Tato, ma mi sembra tutta una diatriba tra maschi. Il dio di Freud, così ragionevole e tollerante, contro i rozzi e violenti dèi guerrieri delle mitologie pagane, va bene. Però le dee? La Grande Madre Mediterranea, per esempio, che fine ha fatto? E Iside? E poi, non capisco questa cosa dell'iconoclastia: cosa avete contro le cerimonie, i riti, e anche contro la magia, le statue e gli amuleti? Non so, sarà anche una bella cosa, questo famoso monoteismo, un grande progresso, non discuto, ma non so perché mi fa venire in mente la caccia alle streghe... Vado a svegliare la bambina, vah! Ché se no si fa tardi".
"No! Aspetta un minuto".

Pubblicato il 7 maggio 2010, qui: http://www.evulon.net/news.php?extend.3368