lunedì 28 marzo 2011

Mozart schedato da Buscaroli

Va subito detto che il titolo del libro di Piero Buscaroli, La morte di Mozart (Rizzoli, Milano 1996, pp. 373) è fuorviante. L'oggetto della trattazione di Buscaroli non è, infatti, "la morte di Mozart", bensì gli ultimi dieci anni di vita del grande compositore. L'intento dichiarato di Buscaroli è quello di demolire tutta una serie di leggende, falsità e luoghi comuni che, secondo lui, si sarebbero accumulati intorno alla figura di Mozart ad opera dei suoi biografi otto e novecenteschi: il Mozart di Buscaroli sarebbe infine quello genuino ed autentico, finalmente restituitoci dopo due secoli di menzogne.

Mi sembra che il punto di vista di Buscaroli sia politicamente determinato e che questa componente politica sia un elemento essenziale del suo metodo. Infatti, Buscaroli è un nostalgico dell'ancien régime, né più né meno. Tutto ciò che deriva dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione francese, per Buscaroli, è pura e semplice aberrazione. Buscaroli non accetta nulla della modernità; del feudalesimo, invece, rimpiange ogni aspetto (per esempio anche l'elevata mortalità infantile, p. 261). Questo suo punto di vista radicalmente antimoderno dovrebbe, nelle intenzioni di Buscaroli, garantirgli una completa indipendenza dalle ideologie correnti nella nostra epoca e consentirgli così di vederci più chiaro di ogni altro biografo mozartiano prima di lui.

In altre parole, il libro di Buscaroli non si basa affatto su una ricerca archivistica che abbia prodotto fonti inedite e di prima mano. Si basa, invece, sulla reinterpretazione delle fonti già note, le quali, sotto l'occhio limpido e scevro di pregiudizi di Piero Buscaroli, rivelerebbero alfine quella verità che nessuno, prima di lui, aveva veduto.

Le fonti principali di Buscaroli sono infatti: l'epistolario mozartiano; la raccolta di documenti a cura di Erich Deutsch Mozart. Die Dokumente seines Lebens, Kassel 1961; e le prime biografie mozartiane di Schlichtegroll (1793), Niemetschek (1798), Nissen (1828) e Jahn (1856-59). Sono tutti materiali ben conosciuti e ampiamente utilizzati dalla critica mozartiana. Buscaroli esprime invece il massimo disprezzo per il W. A. Mozart di Hermann Abert (1921), opera considerata fondamentale da tutti ma non da Buscaroli il quale, naturalmente, è anche in costante e aspra polemica con quasi tutta la critica mozartiana novecentesca.

Vediamo allora, più nel dettaglio, qual è il bersaglio polemico della ricostruzione buscaroliana.

Mozart, che all'età di venticinque anni lasciò il servizio dell'Arcivescovo di Salisburgo per trasferirsi a Vienna, dove cercò di mantenersi con i proventi della sua attività di pianista e compositore, è oggi celebrato come il primo grande musicista dell'epoca borghese, colui il quale, per primo, tentò di conquistarsi lo status di libero artista, riscattando così la figura del musicista dal suo ruolo di dipendente delle corti. Nelle parole del sociologo Norbert Elias (1991): "Da outsider borghese al servizio della corte, Mozart combatté fino in fondo, con incredibile coraggio, una battaglia di affrancamento dai suoi padroni e committenti aristocratici. Lo fece di propria iniziativa, per amore della propria dignità di uomo e del proprio lavoro di musicista. E perse la battaglia [...]". Secondo Elias, Mozart perse la battaglia (e la vita) in quanto i tempi non erano ancora maturi per lui: la lotta di Mozart si svolse in una nazione, l'Austria del settecento, che si trovava "in una fase dello sviluppo sociale nella quale i rapporti di potere tradizionali erano praticamente ancora intatti".

Per l'ultrareazionario Buscaroli, questa moderna visione di Mozart come artista rivoluzionario è fumo negli occhi. Con grande insistenza, Buscaroli ci propone invece un Mozart meschino, pavido e conformista, caratterizzato dalla "evidente mancanza di superiori doti intellettuali e morali" (p. 342). "Mai anelò al riscatto sociale e politico della figura dell'artista, cercava un reddito fisso, ma alto" (p. 32). "Il libero mercato dell'arte gli si spalanca, e lui continua a sperare in un impiego a corte, meglio a Vienna, dove potrebbe, tutt'al più, raddoppiare lo stipendio di ora. Uomo libero è solo a parole [...]. I suoi sogni sono quelli di un impiegato" (pp. 183-4).

Tutto il libro di Buscaroli pullula di simili osservazioni, che in verità sono reiterate tanto spesso, quanto poco sono seriamente argomentate. E non potrebbe essere diversamente, dato che, come ho detto sopra, le fonti di Buscaroli sono le stesse dei critici mozartiani che lui tanto disprezza. Se, per loro, queste fonti disegnano una determinata figura e per Buscaroli la figura esattamente opposta, ciò dipenderebbe solo dal fatto che Buscaroli è intelligente e onesto, mentre gli altri autori sono stupidi e/o in malafede.

Un esempio del metodo argomentativo di Buscaroli lo si trova nella trattazione delle dimissioni di Mozart dalla corte arcivescovile di Salisburgo nel giugno 1781. In quella circostanza, com'è noto, il segretario dell'Arcivescovo, un tale conte Arco, per tutta risposta all'insistenza con cui Mozart continuava a chiedergli di accettare la sua richiesta di dimissioni, assestò al musicista un calcio nel sedere. Questo episodio, che ha suscitato l'indignazione unanime di tutta la posterità, viene raccontato da Buscaroli con le tecniche adottate dagli avvocati difensori di chi viene processato per stupro:
A) minimizzare. "Credette di dover ridurre alla ragione il musicista ribelle con la zotica seppur benintenzionata famigliarità elargita a sguatteri e inservienti".
B) Insinuare dubbi sulla veridicità del fatto. "E se fosse tutta invenzione [...]?"
C) Sostenere che la vittima, in fondo, se l'è cercata. "E il giovane genio dal corpo minuto [...] fece tutto quanto poteva per trarlo fuori dai gangheri" (tutte le citazioni sono dalla p. 53).
Il tutto al palese scopo di tessere l'apologia di un sistema sociale, nel quale era possibile che un Mozart venisse preso a calci dallo scagnozzo di un feudatario.

A ciò aggiungiamo il fatto che, della musica di Mozart, Buscaroli parla poco o nulla: al Don Giovanni sono dedicate in tutto 3 (tre) pagine, nelle quali Buscaroli si limita a dirci che Da Ponte copiò il libretto da Giovanni Bertati; e sai che novità! Questo ci dà la misura di quanto la lettura di questo libro possa risultare tediosa e irritante.

Questo, almeno, per le prime duecentosessanta pagine. E' solo quando Buscaroli inizia a parlare degli ultimi mesi di vita di Mozart, che il suo discorso comincia a farsi un minimo interessante. A proposito della genesi del Requiem, Buscaroli propone una tesi che, pur non essendo necessariamente giusta, non è né futile né banale. Secondo Buscaroli (il quale, per una volta, avverte onestamente il lettore di non aver prove di quanto afferma: p. 324), l'incompiutezza del Requiem non sarebbe dovuta alla morte improvvisa del compositore, bensì ad una sua scelta deliberata. Infatti, Mozart fu incaricato della composizione da un nobile musicista dilettante, il conte Walsegg-Stuppach, il quale intendeva appropriarsi della stessa paternità dell'opera: il conte voleva cioè far eseguire il Requiem (dalla propria orchestra di corte) figurandone lui come autore.

Secondo Buscaroli, quando Mozart si rese conto dei termini di questo incarico (che inizialmente aveva accettato per necessità di denaro), maturò un invincibile disgusto per il lavoro che gli era stato commissionato: la sua coscienza artistica e professionale si ribellò all'idea di dover comporre un'opera che non avrebbe mai potuto rivendicare come sua. Sarebbe questo, secondo Buscaroli, il vero motivo per cui il Requiem rimase incompiuto.

Una prova a sostegno della sua ricostruzione sarebbe costituita, secondo Buscaroli (il quale considera il Requiem di Mozart un'opera minore e mal riuscita), dalla stessa scarsa qualità musicale della composizione. Mozart, cioè, sapeva di dover scrivere un'opera che sarebbe andata sotto il nome di un musicista dilettante: perciò la scrisse in modo volutamente sciatto, adoperando ad esempio un "contrappunto opaco, scontato, da manuale" (p. 325), e alla fine si rifiutò senz'altro di completarla, meditandone probabilmente la distruzione.

Buscaroli, però, sembra non rendersi conto che quanto lui scrive in queste pagine finali, a proposito del Mozart autore del Requiem, contraddice in modo stridente quanto egli stesso ha sostenuto nel corso di tutti i capitoli precedenti. Se Mozart, dal 1781 fino all'estate del 1791, era quel piccolo-borghese pusillanime e opportunista che Buscaroli si è sforzato di dipingere, come si spiega questo improvviso scatto di orgoglio e di dignità a pochi mesi dalla morte?

A me sembra, invece, che in queste pagine finali gli occhiali dell'ideologia siano in qualche modo caduti dal naso di Buscaroli, il quale, alla fine, non può a fare a meno di riconoscere a Mozart quelle qualità umane che fin qui gli aveva ostinatamente e faziosamente negato.

Per finire, ho seri dubbi sulla valutazione critica che Buscaroli riserva al Requiem. Non trascurerei il fatto che quest'opera sembra attualmente la più popolare fra quelle del suo autore. Ad esempio, se si digita Mozart nella casella di ricerca di "YouTube", il Requiem è la prima opzione che viene proposta. Senza dubbio, ciò si deve in gran parte al film Amadeus. Ma in parte, secondo me, lo si deve anche alla relativa semplicità di fruizione del Requiem che Buscaroli, a suo modo, evidenzia, pur senza comprenderne le ragioni. Non dimentichiamo che Mozart, poco prima di morire, fu testimone dell'enorme successo del suo Flauto Magico, un'opera scritta per un teatro della periferia di Vienna e destinata ad un pubblico popolare.

Forse Mozart, dopo aver volutamente sfidato il gusto dell'aristocrazia, e dopo l'amara esperienza del mancato sostegno da parte del pubblico borghese, negli ultimi mesi di vita iniziò a intravedere la possibilità di rivolgersi ad un pubblico interamente nuovo, posto al di fuori delle classi dominanti del presente e dell'immediato futuro. E cominciò a orientare la sua scrittura musicale all'obiettivo di conquistare ed educare, se necessario anche calibrando il livello di complessità compositiva, questo nuovo pubblico.

(Trovate la presente recensione anche su Evulon).

mercoledì 16 marzo 2011

Il terremoto di Messina del 1908

Ripubblico qui di seguito una mia recensione (risalente a sei anni fa) al libro di Giorgio Boatti, La terra trema. Messina 28 dicembre 1908. I trenta secondi che cambiarono l'Italia, non gli italiani, Mondadori, Milano 2004, pp. 414, € 18,50.

"Ore 5.20 terremoto distrusse buona parte Messina - Giudico morti molte centinaia - case crollate sgombro macerie insufficienti mezzi locali - urgono soccorsi per sgombro vettovagliamento assistenza feriti - ogni aiuto sarà insufficiente".

E' il testo del telegramma con cui il governo italiano apprese del terremoto di Messina: inviato dal comandante di una nave militare da una stazione telegrafica calabrese alle 14.50 del 28 dicembre 1908, giunse al Ministero degli Interni alle 17.35 dello stesso giorno, cioè dodici ore dopo il disastro.
In questo telegramma la valutazione dei danni è naturalmente molto sottostimata: il terremoto, dell'undicesimo grado della scala Mercalli, distrusse quasi completamente le città di Messina e Reggio Calabria e causò, secondo le statistiche ufficiali, 77.283 morti (in altre valutazioni la cifra oscilla fra le 80.000 e le 140.000 vittime).

A volte, quando ci si sofferma a considerarla, la storia del nostro paese sembra un'ininterrotta sequela di disastri. Ogni generazione ha la sua catastrofe civile da ricordare e anzi spesso più d'una, a volte d'origine naturale e a volte umana. Il copione sembra sempre lo stesso: evento tragico; prime ricostruzioni giornalistiche, concitate e a forti tinte; interviste ai superstiti; il cordoglio della nazione; le autorità dello stato si precipitano sul luogo dell'evento; polemiche sulla tempestività dei soccorsi e sulla loro efficienza; i parenti delle vittime accusano; funerali solenni; ancora polemiche finché i riflettori dei mass-media si spengono.

Questo libro di Giorgio Boatti sul terremoto di Messina si basa in gran parte su uno studio accurato dei giornali dell'epoca. Una prima constatazione è che in essi lo schema che ci è tristemente familiare appare già operante. Il governo di Giovanni Giolitti dovette ben presto difendersi dalle accuse di non aver compiuto in modo adeguato e tempestivo l'opera di soccorso delle popolazioni colpite. In particolare, l'opinione pubblica dell'epoca fu colpita dal fatto che i primi soccorsi organizzati non vennero apprestati da parte italiana, bensì, a partire dalla mattina del 29 dicembre, dagli equipaggi di squadre navali russe e inglesi che casualmente si trovavano nei pressi al momento del terremoto (equipaggi che, secondo tutte le testimonianze, svolsero la loro opera eroicamente). I primi soccorritori italiani, dell'ottavo reggimento dei Bersaglieri, provenienti da Palermo, sbarcarono solo nel pomeriggio inoltrato dello stesso giorno.

Ma la cosa che più colpisce nella reazione all'evento da parte del governo italiano non consiste tanto nella lentezza o inefficienza dei soccorsi, per la quale si possono addurre delle circostanze attenuanti: l'Italia era allora un paese povero, sottosviluppato rispetto alle altre nazioni europee; la stessa tecnologia dell'epoca non consentiva una grande rapidità di reazione; il terremoto danneggiò molto seriamente le infrastrutture e le vie di comunicazione nelle zone colpite; infine non esisteva ancora il moderno concetto di protezione civile e lo Stato italiano non era preparato ad affrontare simili emergenze.

Ciò che realmente sorprende è che fin dall'inizio, il governo e una parte della pubblica opinione sembrarono considerare il terremoto principalmente come un problema di ordine pubblico. Fra le prime preoccupazioni si registrano, infati, il timore delle epidemie e la paura dei saccheggi.

Scrive il quotidiano "La Tribuna" del 2 gennaio 1909: per impedire un'epidemia occorre "compiere l'opera distruggitrice perpetrata dal terremoto: buttare giù quel poco che resta di queste case, buttarlo giù nel modo più energico, più rapido: a colpi di cannone. Far sgomberare i pochissimi superstiti e dalle navi bombardare queste scarnificate vestigia della città (...) non v'è altra via per impedire che il luogo dov'era Messina diventi un centro d'infezione a cui nessuno osi più avvicinarsi". (p. 118). "Il Mattino" del 6-7 gennaio rilancia la stessa idea attribuendone la paternità al Re, mentre "Il Messaggero" del 6 gennaio suggerisce di ricorrere al fuoco: "Si dia in preda alle fiamme [Messina] per purificarla, o si ricostruisca con piccole case come una cittadina giapponese" (p. 119).

E' sconcertante che fra le prime misure suggerite dopo un terremoto, vi sia quella di deportare la popolazione colpita e poi bombardare la città: sembra che nel caso di Messina non si sia arrivato a tanto solo perché, a distanza di molti giorni dalla catastrofe, si continuavano a trovare dei sopravvissuti sotto le rovine. Ma si rimane ancora più stupiti quando si apprende che uno dei motivi che suggerirono queste misure estreme, fu la necessità di preservare dai furti i valori rimasti sotto le macerie e soprattutto i caveaux delle banche.

Il regio decreto del 4 gennaio 1909 stabiliva lo stato d'assedio nei territori colpiti dal terremoto e conferiva i pieni poteri per l'emergenza al generale di corpo d'armata Francesco Mazza (annota Boatti che una diceria popolare fa discendere dal suo cognome l'etimologia della locuzione siculo-calabra "non capire una mazza"). Installatosi con il suo stato maggiore a bordo di una lussuosa nave militare al largo, e senza scendere quasi mai a terra, il generale Mazza provvide a circondare Messina di un cordone sanitario di truppe, cui diede l'ordine di sparare su chiunque dall'esterno si avvicinasse alla città senza lasciapassare. Questo per impedire che bande di saccheggiatori si riversassero sul luogo del disastro.

Ecco alcuni passi tratti dal bando emanato dal generale Mazza il 10 gennaio, riportato integralmente a p. 374 del libro di Boatti: "1 - Sono sospesi fino a nuovo ordine gli scavi delle macerie da parte di privati cittadini, sia per rintracciare cadaveri, sia per recuperare valori. (...) Le persone trovate a scavare saranno considerate come ladri e deferite al tribunale di guerra. [Questo mentre ancora i parenti delle vittime cercavano i loro cari sotto le macerie, n.d.r.] Anche le truppe, nei lavori stradali che compiono, si limiteranno esclusivamente ai lavori di assestamento evitando di eseguire scavi. (...) 3 - E' proibito l'ingresso in città a tutte le persone non munite di regolare permesso rilasciato dall'autorità politica della provincia da cui provengono..."

Il 6 gennaio l'autorità militare ordina di sospendere la distribuzione di viveri ai superstiti. Saranno distribuiti viveri a bordo delle navi, solamente ai profughi che accetteranno d'imbarcarsi per lasciare la città. L'idea, commenta Boatti, è perciò quella di "utilizzare l'arma della fame e della sete per imporre (..) la desertificazione di Messina" (p. 135). Questa cinica soluzione non viene attuata perché, come accennavo sopra, alcuni dei sepolti sotto le macerie si ostinano a farsi ritrovare vivi anche dopo giorni e giorni dal terremoto; ma altresì per le perplessità espresse da una parte della pubblica opinione e anche per le proteste degli stessi messinesi: un'assemblea autoconvocata di cittadini chiede il 19 gennaio la revoca dello stato d'assedio. Stato d'assedio che - osserva con sarcasmo il corrispondente de "Il Mattino" del 6 gennaio 1909 - sembra avere lo scopo precipuo di garantire "il sonno ai morti e la biancheria, gli oggetti e i titoli di banca ai vivi" (p. 137).

In seguito Giolitti giustificò la scelta di dare priorità al recupero dei valori, adducendo il timore di speculazioni al ribasso sulla lira (p. 146). Boatti propone un'altra spiegazione: "La difesa delle proprietà, la guardia ai caveaux delle banche, il salvataggio dei lingotti che mette in secondo piano altri interventi è una linea d'azione adottata, anzi, sbandierata, perché dal disordine - anche sociale - del terremoto emerga alfine una visione dove a prevalere è l'ordine, lo status quo, l'autorità e il prestigio dell'apparato dello Stato. (...) Salvare milioni, o lingotti, dopo tutto è meno complicato che cercare di strappare alla morte, in una gara contro il tempo, migliaia di sepolti vivi" (p.155).

A questo atteggiamento grettamente calcolatore da parte degli apparati dello Stato si contrappone lo slancio di solidarietà manifestato da più parti della società. In poche settimane si raccolgono più di ventun milioni di lire (dell'epoca) in sottoscrizioni, buona parte delle quali provenienti dall'estero. La cosa non manca anzi di creare preoccupazioni nelle alte sfere: non si rischierà di creare l'abitudine all'assistenza, al farsi mantenere dallo Stato, a quello che oggi si chiama assistenzialismo? Sua Altezza Reale il Duca d'Aosta esprime autorevolmente questo cruccio quando afferma che "è immorale mantenere un'orda di vagabondi e creare oziosi" (p. 234).

Non si trattò soltanto di solidarietà finanziaria. Volontari affluirono da tutta Italia per prestare opera di soccorso. Boatti dedica particolare attenzione alla vicenda di uno di essi, il parlamentare parmense Giuseppe Micheli, un deputato cattolico che, arrivato a Messina pochi giorni dopo il terremoto, subito mise in piedi, con la collaborazione dell'Arcivescovo, un "comitato messinese di soccorso", a carattere volontario, che si rivelò un'organizzazione semiufficiale sotto molti aspetti più efficiente di quella statale (pp. 263-68). Un'altra figura che emerge è quella dell'ex sindaco socialista di Catania Giuseppe De Felice Giuffrida, che era stato protagonista pochi anni prima di una delle esperienze politico-amministrative più avanzate della Sicilia dell'epoca: da sindaco della sua città aveva promosso forme di socializzazione dei servizi pubblici (forni municipalizzati, cucine popolari), la cui esperienza risultò ora preziosa per organizzare la distribuzione dei viveri ai superstiti del terremoto (pp. 203-4).

La miseria delle regioni colpite dal terremoto impressionò molti degli osservatori e degli inviati giunti sul luogo della catastrofe. Qualcuno propose dei rimedi; ad esempio il letterato Giovanni Cena suggerì, naturalmente quale misura temporanea, quella di emigrare. "Parecchi anni di duro tirocinio all'estero (...): poi gli emigranti calabresi torneranno altri uomini e non domanderanno più nulla, fuorché il loro buon diritto di cittadini" (p. 381). (Oggi si può dire che noi calabresi abbiamo seguito il consiglio, e che gli "anni di tirocinio" sono stati effettivamente molti, anzi durano tuttora. Sarà che siamo un po' lenti ad imparare?).

Il libro di Boatti non manca di sottolineare l'imprevidenza e anche l'incoscienza generalizzata che indussero i cittadini di Messina e Reggio Calabria (le città che oggi qualcuno vorrebbe unire con un ponte lungo tre chilometri, inutile, dannoso e pericoloso) a costruire tutto, anche gli edifici pubblici, al di fuori delle più elementari regole di sicurezza. Le fotografie che corredano il volume illustrano un panorama di distruzione impressionante, ove emerge, unica costruzione intatta perché edificata con criteri antisismici, il villino di un medico messinese.

Nella sua ricognizione della pubblicistica dell'epoca, Boatti dedica due capitoli ad alcune singolari polemiche: quella (cap. XVII) fra autorità laiche e cattoliche riguardo alla sistemazione degli orfani del terremoto (il Vaticano pretendeva ovviamente che fossero tutti educati "in Cristo" nei suoi istituti), e quella concernente il destino dell'Università di Messina, di cui alcuni illustri cattedratici proposero senz'altro la chiusura, in base alla considerazione che di università ce n'erano fin troppe e che in particolare quelle meridionali erano diplomifici per giovani sfaccendati (pp. 276-7).

Boatti chiude la sua esposizione con un'osservazione suggestiva: la "meglio gioventù" dei volontari del terremoto, poco dopo, buttò via inutilmente la propria carica di idealismo e di amor patrio, la propria volontà di fare e di cambiare le cose, nelle trincee della Prima guerra mondiale. Agli ordini (aggiungo io) di quella medesima classe dirigente ignorante, ottusa, autoritaria, incapace e meschinamente arroccata nella difesa dei propri privilegi, che aveva già dato prova di sé nella gestione ufficiale dell'emergenza-terremoto e che di lì a poco "inventerà" il fascismo.

Questo testo di Giorgio Boatti fa luce su un episodio importante e poco conosciuto della nostra storia nazionale, e lo fa (a differenza della pseudo-storiografia sensazionalistica e superficiale oggi di moda) con grande scrupolosità e metodo: il volume si chiude con ben cento pagine di appendice documentaria e di note al testo. Anche solo per questo sarebbe da raccomandare. Per chi come me proviene da una delle zone disastrate, la lettura di questo libro è irrinunciabile e consente di ritrovare la radice di mali antichi.

Originariamente pubblicato il 22 febbraio 2005, qui.