lunedì 3 settembre 2012

Cinque buoni motivi per (non) leggere D'Annunzio

Quest'estate ho intrapreso un viaggio in automobile attraverso i classici della prosa italiana. Per non partire da troppo lontano, ho limitato l'arco temporale agli ultimi due secoli; sono entrato al casello dell'Ortis, ho proseguito per Manzoni, poi ho attraversato le Operette morali e lo Zibaldone e, già che c'ero, mi sono concesso una deviazione per i Canti e i Paralipomeni. Durante la sosta in autogrill, davanti a una piadina e a un quartino di Chianti, ho pensato a quanto ero fortunato per il fatto che né Carducci né Pascoli si fossero mai dedicati alla narrativa; poi ho imboccato con fiducia il rettilineo che conduce al grande De Roberto attraverso il grandissimo Verga.

Fin qui tutto bene. Ma già sapevo che, dopo la barriera in uscita dall'A-800, e prima di imboccare con decisione l'A-900, avrei dovuto attraversare un tratto di raccordo pericoloso e arduo.

Ecco che già si snoda sotto i miei occhi la temutissima tangenziale D'Annunzio, con le sue cinque uscite.

1. E' un classico. Può esservi capitato, per motivi di lavoro o di studio, di dover leggere parecchi testi italiani risalenti alla fine del diciannovesimo o all'inizio del ventesimo secolo. Non necessariamente testi letterari: anche articoli di giornale o saggistica. Vi sarete accorti di quanto spesso lo stile appare gonfio, ampolloso, enfatico. E' come se, in quel periodo, un'epidemia di cattiva retorica (il "dannunzianismo") si fosse abbattuta sulla prosa italiana. E però: quando un autore riesce a imprimere in modo così massiccio e durevole la propria impronta sulla lingua nella quale scrive, questo autore è ciò che si dice un classico. Vale a dire che D'Annunzio non può essere tralasciato, in quanto rappresenta una fase di evoluzione della lingua italiana.

"Ma, trapassando il simbolo materiale, ci abbandoniamo con ansia alla virtù evocatrice dei profondi accordi in cui il nostro spirito sembra oggi trovare il presentimento di non so qual sera grave di belle fatalità e d'oro autunnale su un porto quieto come un bacino d'olio odorifero ove una galera palpitante d'orifiamme entrerà con uno strano silenzio come una farfalla crepuscolare nel calice venato d'un gran fiore".

2. E' decadente. Mettiamo che un bel mattino vi svegliate e vi sentiate esteti. Ovviamente non lavorate, e non avete il problema della sussistenza materiale. Fra i moltissimi modi a vostra disposizione per iniziare la giornata (il sesso, l'equitazione, il gioco d'azzardo, le droghe, bighellonare per il centro cittadino, ecc.) scegliete di leggervi un buon libro. Siete snob, e quindi sdegnate l'idea di leggere una volgare traduzione. Siete pigro, e non vi va di approcciare Proust né Wilde in lingua originale. Siete italiano, e vi dovete accontentare di quello che passa il convento. E allora non c'è via di scampo. Alla richiesta "estetismo decadente", la letteratura italiana risponde con D'Annunzio. O cambiate arte (Puccini è una validissima alternativa), oppure vi tocca tirare giù dall'ultimo scaffale il poeta di Pescara.

"Ricordi la ventesima delle variazioni beethoveniane sul tema del Diabelli dedicate ad Antonia Brentano? - diceva Aldo, svegliando nella profondità della nera cassa quegli accordi in cui per una miracolosa trasfigurazione il tema principale è irriconoscibile. - Non sembra armonizzata su quel fondo ove la croce le scale i corpi i singhiozzi le grida gli aneliti la luce non penetrano? Ascolta; e guarda quell'azzurro opaco sordo eguale, senza raggio, senza nube, di là da cui spazia forse quella regione della vita ove una sola cosa importa".

3. E' un poeta. Nonostante tutto, in D'Annunzio c'è del bello. Egli si autodefinì "l'Imaginifico" (con la I maiuscola, e una emme sola). Infatti, la sua prosa è caratterizzata da una strabordante varietà di immagini, di similitudini e di metafore. In gran parte sono rumore di fondo e gratuito orpello kitsch. Ma, per un puro fatto statistico, ogni tanto qualcuna è giusta. In altre parole, D'Annunzio funziona un po' come quei comici che producono battute a raffica, velocissime: alla fine ridi, un po' per sfinimento e un po' perché fra le tante ce n'era una buona.

"E nella faccia e nella mano era tanta forza d'espressione e d'illuminazione, ch'elle parevano sorpassare la realtà e intagliarsi nel cielo stesso del fato, come quando il crinale delle Dolomiti solo arde nei crepuscoli inciso contro tutta l'ombra e ciascuno dei suoi rilievi s'addentra nell'anima di chi mira e vi s'eterna".

4. E' conseguente. Come si sa, l'opera di D'Annunzio ha anche una ben precisa connotazione politica. Non mi dilungo su questo aspetto, però voglio rilevare che, sotto questo punto di vista, moltissimi italiani sono dannunziani, senza saperlo o sapendolo. Non tanto, e non solo, per una questione di appartenenza a certi partiti o a certe ideologie; quanto per il fatto di condividere con D'Annunzio un determinato rapporto con il reale. Infatti, il tipico atteggiamento dannunziano nei confronti della realtà non consiste nel riconoscerla così com'è, né tanto meno nel cercare di cambiarla. Consiste nel mistificare, sempre e comunque, e con ammirevole pertinacia e coerenza, la realtà. Se D'Annunzio fosse un software, sarebbe una specie di Matrix che trasfigura esteticamente tutti gli oggetti dell'esperienza facendo apparire "bella" ogni cosa. Se D'Annunzio fosse un odierno manager della TV, la sua ambizione sarebbe quella d'ideare un palinsesto così avvincente da tenere tutti i telespettatori attaccati allo schermo ventiquattr'ore su ventiquattro, dimentichi della vita e desiderosi di sempre nuove illusioni. Se D'Annunzio fosse un politico... Ma lo fu, tra l'altro. E fece scuola, ed ebbe tanti seguaci. E molti ne avrebbe ancora oggi, se fosse vivo.

"Né soltanto verso quella moltitudine ma verso infinite moltitudini andò il suo pensiero; e le evocò addensate in profondi teatri, dominate da un'idea di verità e di bellezza, mute e intente dinanzi al grande arco scenico aperto su una meravigliosa trasfigurazione della vita, o frenetiche sotto il repentino splendore irradiato da una parola immortale. E il sogno d'un'arte più alta levandosi in lui anche una volta, gli dimostrò gli uomini novamente presi di reverenza verso i poeti come verso coloro i quali potevano soli interrompere per qualche attimo l'angoscia umana, placare la sete, largire l'oblio. E troppo gli parve lieve quella prova ch'egli compiva; poiché mosso dal soffio della folla il suo spirito si stimò capace di generare finzioni gigantesche".

5. E' morto. Alla fine questa è la cosa più importante. Dall'esperienza dannunziana la nostra letteratura uscì vaccinata: per un paio di generazioni gli scrittori sfuggirono la retorica e cercarono una lingua scabra ed essenziale.

"Io non comprendo perché oggi i poeti si sdegnino contro la volgarità dell'epoca presente e si rammarichino d'esser nati troppo tardi o troppo presto. Io penso che ogni uomo d'intelletto possa, oggi come sempre, nella vita creare la propria favola bella. Bisogna guardare nel turbinio confuso della vita con quello stesso spirito fantastico con cui i discepoli del Vinci erano dal maestro consigliati di guardare nelle macchie dei muri, nella cenere del fuoco, nei nuvoli, nei fanghi e in altri simili luoghi per trovarvi invenzioni mirabilissime e infinite cose".

Sì, certo.
E l'orifiamma e la ventesima variazione e l'arco scenico e le Dolomiti...
Le Dolomiti?
Mi sa tanto che ho sbagliato uscita.
Sto andando verso il Brennero.
Arrivederci, Italia!

[Già pubblicato su Evulon]

mercoledì 1 agosto 2012

Giuseppe Genna: Grande madre rossa

Oggi è il primo di agosto e sono piuttosto insoddisfatto di me stesso in generale e di questo blog in particolare. Vorrei scrivere qualcosa di incisivo e pregnante. Come al solito, non ci riesco. Invece, ho deciso di riciclare una recensione a Grande madre rossa di Giuseppe Genna che scrissi tre anni fa per un sito commerciale e che ripubblico qui di seguito, con minime variazioni. E' brutta, ma se non altro vi trapela un po' di entusiasmo: qualcosa che al momento mi manca.

Che libro è Grande madre rossa? In prima approssimazione, è un thriller. Ma, se incontrate l'autore, non insistete troppo su questa definizione. Tempo fa, Giuseppe Genna dichiarò che avrebbe regalato una copia del Codice da Vinci al primo che gli avesse detto che lui scriveva thriller. Inutile aggiungere che Genna non è precisamente un estimatore di Dan Brown.

Ecco la trama. Una spaventosa esplosione polverizza il Palazzo di Giustizia di Milano, facendo più di mille vittime. L'attentato non è stato rivendicato, ma se ne temono altri e il commissario Guido Lopez della Questura di Milano, sulla traccia dei colpevoli, lotta contro il tempo e forse contro ostacoli e depistaggi dei servizi segreti italiani e di quelli stranieri...

Certo, trattandosi di un thriller, sarebbe delittuoso (appunto) svelare ulteriori dettagli. Non lo farò. Dovete fidarvi della mia parola quando vi dico che il libro l'ho letto per intero e tutto d'un fiato.

Mentre Genna scriveva questo romanzo, vivevo e lavoravo a Milano (tra l'altro abitavo nel quartiere popolare di Calvairate, che Genna conosce bene e di cui spesso parla nei suoi romanzi, compreso questo). Ricordo benissimo la paura, che in quel periodo serpeggiava, di un nuovo e terribile attentato. Infatti, dopo l'11 settembre e dopo la strage della stazione ferroviaria a Madrid, tutti temevano che il prossimo bersaglio dei terroristi sarebbe stato la metropolitana di Milano: la quale, in quegli anni, l'undici di ogni mese risultava stranamente meno affollata rispetto agli altri giorni... Grande madre rossa rende assai bene quel clima di psicosi collettiva.

Ma è veramente un thriller, Grande madre rossa? E' un romanzo di spionaggio, di fantapolitica? E' un romanzo "realistico", qualunque cosa questa parola voglia dire? - Consentitemi di riportare per esteso la nota apposta al suo romanzo da Giuseppe Genna a mo' di premessa.

"Le vicende qui narrate sono finzioni letterarie al 100%. In esse compaiono nomi di persone e circostanze 'reali' in qualità di pure occasioni narrative. I nomi di aziende, strutture istituzionali, media e personaggi politici vengono utilizzati soltanto al fine di denotare figure, immagini e sostanze dei sogni collettivi che sono stati formulati intorno a essi, e si riferiscono quindi a un ambito mitologico che non ha nulla a che vedere con informazioni od opinioni circa la verità storica effettiva degli avvenimenti o delle persone - in vita o scomparse - su cui questo romanzo elabora una pura fantasia."

Attenzione: non si tratta del solito disclaimer messo lì solo per motivi legali (del tipo "ogni riferimento ecc. è del tutto casuale"). In questo romanzo i riferimenti non sono affatto casuali, tuttavia quando Genna usa le espressioni "sogni collettivi", "ambito mitologico" e "pura fantasia" dobbiamo prenderlo sul serio.

Di fatto, Genna dimostra con questo romanzo una eccezionale capacità di giocare con l'inconscio collettivo, di evocare sogni o incubi metropolitani, e di svelare (o forse di creare) archetipi remotissimi e affascinanti. Da questo punto di vista Grande madre rossa è molto più vicino a Lautréamont, ai surrealisti francesi, a William Burroughs, di quanto non lo sia a Grisham o a Ian Fleming.

Ho trovato veramente straordinaria tutta la parte del romanzo ambientata nel Cimitero Monumentale di Milano. Opera architettonica ottocentesca di notevole cattivo gusto, in questo senso equivalente milanese (anche se meno celebre) del Vittoriano di Roma, nonché una delle parti più neglette ed ignorate della città di Milano, nelle pagine di Genna il Cimitero Monumentale diventa genialmente il luogo dell'inconscio e del rimosso ove risiede la verità nascosta della città. Da gustare, in questo romanzo d'azione, crudo e hard-boiled secondo le migliori tradizioni del suo genere, il "cameo" dedicato al Manzoni:

"Non c'era più posto nel Vecchio Famedio, tempestato di lapidi in ogni centimetro quadro. Il tempio del tempo scaduto per Alessandro Manzoni. Manzoni: polvere sul mogano della cattedra, polvere di gesso. L'epidemia ubiquitaria, transgenerazionale, scolastica, che colpisce ogni italiano quindicenne: Manzoni.
Cosa c'entra Manzoni oggi?"


Fin dai tempi di Emilio Praga e della scapigliatura, Manzoni è il bersaglio polemico dell'avanguardia artistica milanese... Anche da questo punto di vista, Genna è veramente figlio della sua città. Qui, però, non è realmente chiaro se Genna stia polemizzando contro l'autore dei Promessi sposi, o non piuttosto contro la nostra epoca, così degradata da non trovare più posto per un Manzoni.

Bellissimo è poi il finale del romanzo, che descrive una ipotetica Milano post-catastrofe, in apparenza uguale ma forse enigmaticamente diversa, forse migliore. La piazza dove prima si trovava il Palazzo di Giustizia, distrutto dall'immane esplosione:

"La nuova piazza, larga, aperta, immensamente chiara: il luogo dove sorgeva, come un sogno, il Palazzo.
Come puntine da disegno e graffette, in controluce, i nonni e i bambini, che giocano, a passeggio, nell'incredibile spazio bianco della nuova piazza."


E, nella piazza,

"il monumento di marmo bianco, una colonna altissima, messo in verticale, l'architrave di quello che fu il Palazzo di Giustizia.
E' la nuova colonna infame."


Ed ecco, dunque, che abbiamo ritrovato anche il buon vecchio Manzoni... L'autore della Storia della colonna infame non poteva essere liquidato così facilmente, dato che la riflessione sul rapporto tra diritto e giustizia è uno dei temi portanti di Grande madre rossa.

Grande madre rossa è stato inserito da Wu Ming 1 nel "canone" delle opere più significative del cosiddetto "New Italian Epic", di cui tanto si è discusso negli ultimi due anni. Se fra le caratteristiche del "New Italian Epic" c'è anche quella di sapersi mantenere su livelli elevati di elaborazione mitico-simbolica, direi che questo romanzo merita ampiamente di rientrare nel novero. Parlando di mitologia, va detto che in Grande madre rossa si trovano quei puntuali riferimenti al matriarcato (il leggendario ordinamento sociale preistorico in cui comandavano le donne, studiato fra gli altri da Bachofen, da L. H. Morgan e da Engels) che il lettore legittimamente si attende da un romanzo con tale titolo.

Il romanzo di Genna può essere interpretato anche come una grandiosa, veramente "epica", fantasia di rivalsa. In questa sede non posso essere più preciso, ma consiglio ai lettori di tenere bene a mente la citazione da Ulrike Meinhof posta in esergo.

A proposito, ho letto recentemente un passo di Bachofen che sembra un commento anticipato a Grande madre rossa:

"Questo diritto materno materiale è il più sanguinario di tutti i diritti. Esso impone la vendetta anche là dove mentalità superiori la fanno apparire come un delitto. [...] Il diritto materiale della prima epoca mostra che la sua legge è quella del sangue [...]. L'idea della giustizia superiore, che considera ogni circostanza [...] proviene dal cielo. In precedenza esisteva solo la vendetta sanguinaria che non ascoltava alcuna difesa e che proveniva dalla materia. [...] L'età del diritto femminile è quella della vendetta e del sanguinario sacrificio umano, quella del patriarcato è l'epoca del tribunale, dell'espiazione, del culto senza spargimento di sangue".

BIBLIOGRAFIA

- Giuseppe Genna, Grande madre rossa, n. 1550 del periodico "Segretissimo", aprile 2009; prima edizione Mondadori, Milano 2004 (attualmente esaurita, spero che venga ristampata presto, perché il libro lo merita assolutamente).

- Johann Jakob Bachofen, Il matriarcato. Storia e Mito tra Oriente e Occidente, [antologia] a cura di Giampiero Moretti, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2003, pp. 65, 66-67.

- Sul "New Italian Epic", vedi la relativa voce in Wikipedia.

- Il sito Internet di Giuseppe Genna.

- Per chi ne fosse curioso, la recensione di Genna al Codice da Vinci.

giovedì 21 giugno 2012

Sulla critica del diritto nel giovane Gramsci

E' successo che, preparando un commento all'ultima sortita di Saviano a proposito di storia della sinistra italiana, ho ripreso in mano, dopo anni, il vecchio volume dell'Einaudi (Torino, 1960) che raccoglie i corsivi pubblicati da Gramsci sull'"Avanti!" nella rubrica Sotto la Mole (1916-1920). Qui mi è capitato sotto gli occhi il commento di Gramsci alla sentenza sui "fatti di Torino", cioè (annotano i curatori dell'edizione) "lo sciopero generale per il pane e contro la guerra, che sfociò nella sommossa del 23-26 agosto 1917". [1]

Il commento di Gramsci fu pubblicato sull'"Avanti!" il 20 ottobre 1918: il testo, come di frequente, uscì con vistosi "vuoti" dovuti all'azione della censura. Eccolo qui di seguito [2].

BELLU SCHESC' E DOTTORI!

Il giudice Emanuele Pili non è senza storia, come gli uomini e i popoli felici. Ma la storia del giudice Emanuele Pili ha una lacuna; iniziatasi col protagonista autore drammatico, riprende ora col protagonista «ragionatore» di sentenze, e riprende con una gloriosa e strenua pugna: il «ragionamento» della sentenza per i fatti di Torino, che nell'ultimo numero della «Gazzetta dei tribunali» il misuratore di crani prof. Vitige Tirelli qualifica «dotta».
Benedetto Croce ha scritto: «Chi ha pratica dei tribunali sa che molto spesso un magistrato, presa la decisione e stabilita la sentenza, incarica un suo piú gio [dodici righe e mezzo censurate]. E il giudice giovane ha fatto sfoggio di dottrina; e il giudice giovane — poiché nella prima gíoventú aspirava alla gloria di Talia e dedicava le sue fresche energie intellettuali a scrivere commedie nei vari dialetti di Sardegna e non poté studiare tutti i risultati delle ultime ricerche sulla natura del diritto e delle costituzioni — ha ragionato [una riga censurata] nella sentenza dei fatti di Torino, rovistando nei vecchi cassettoni, rimettendo alla luce tutti gli imparaticci scolastici del primo anno universitario, quando ancora si frequentano le lezioni e si prendono gli appunti.
[Venticinque righe censurate].
Gli sono estranee le correnti del pensiero moderno che hanno ringiovanito tutta la dottrina dello Stato e del Giure — superando le concezioni puerilmente metafisiche della dottrina tradizionale, degli imparaticci da scoletta universitaria — colla riduzione dello Stato e del Giure a pura attività pratica, svolta come dialettica della volontà di potenza e non piú pietistico richiamo alle leggi naturali, ai sacrari inconoscibili dell'istinto avito, alla banale retorica dei compilatori delle storiette per la scuola elementare. Il «ragionamento» del giudice Pili è solo una filastroccola di banalità retoriche, di gonfiezze presuntuose: esso è il ridicolo parto di un fossile intellettuale, il quale non riesce a concepire che lo Stato italiano almeno giuridicamente (e come giudice questa apparenza della realtà doveva solo importare al «giovane» da tribunale) è costituzionale, ed è parlamentare per tradizione (l'on. Sonnino è gran parte dello Stato attuale, ma crediamo che il suo articolo Torniamo allo Statuto! non sia ancora diventato legge fondamentale del popolo italiano): [cinque righe censurate]. La «dottrina» del giovane da tribunale infatti si consolida (!) in esclamazioni enfatiche contro chi ha «resistito» o è accusato di aver resistito: non cerca (come era suo compito) di dimostrare, alla stregua delle prove concrete e sicure, un delitto per passare l'esatta commisurazione alla sua entità di una pena contemplata nel codice. No, il «giovane» vuole sfoggiare, come una contadina ricca del Campidano di Cagliari le vesti multicolori che hanno servito alle sue antenate per le nozze e per decine e decine di anni sono rimaste seppellite in un vecchio cassettone a fregi bestiali e floreali tra lo spigo e una dozzina di limoni: e sfoggia tutti i vecchiumi, tutti gli scolaticci dei vespasiani giuridici chiusi per misura d'igiene pubblica.
Il giudice Emanuele Pili ha scritto una commedia dialettale: Bellu schesc' e dottori! (che bel pezzo di... dottore!) L'esclamazione potrebbe essere la conclusione critica della lettura di una sentenza, cosí com'è il titolo di una commedia.

La prima lacuna è stata integrata facilmente dai curatori del testo gramsciano. Si tratta di una citazione dalla Logica di Croce, riportata come segue:

«Chi ha pratica dei tribunali sa che molto spesso un magistrato, presa la decisione e stabilita la sentenza, incarica un suo piú giovane collega di "ragionarla", ossia di apporre una parvenza di ragionamento a ciò che non è intrinsecamente e puramente prodotto di logica, ma è voluntas di un determinato provvedimento. Questo procedere, se ha il suo uso nella cerchia pratica o giuridica, è affatto escluso da quella della logica e della scienza» (B. CROCE, Logica come scienza del concetto puro, Bari 1917, pp. 87-88).

Quando Gramsci nel suo corsivo parla delle "correnti del pensiero moderno che hanno ringiovanito tutta la dottrina dello Stato e del Giure", si riferisce appunto alla filosofia del diritto di Benedetto Croce. Croce aveva infatti affermato l'assoluta separazione tra morale e diritto, e aveva sottoposto il diritto alle categorie dell'utile e della forza. Nella concezione di Croce, il diritto è forza, che viene applicata per il raggiungimento di uno scopo ritenuto (da chi agisce questa forza) utile; il diritto è inoltre amorale, in quanto prescinde dal giusto e dall'ingiusto.

E' interessante notare che qui Gramsci si serve della teoria del diritto di Croce per porre un'istanza di garantismo giuridico. Infatti, ciò che Gramsci rimprovera al giudice Pili, estensore della sentenza sui fatti di Torino, è di aver confuso il diritto con la morale. Il giudice avrebbe dovuto limitarsi a vagliare le prove, accertare se fosse stato commesso un reato, e, in caso affermativo, determinarne la pena secondo le norme del codice. Invece, questa sentenza (scrive Gramsci) pretende di condannare gli imputati non sulla base della legge, bensì sulla scorta di considerazioni di ordine moralistico, la cui infondatezza giuridica è mascherata dal ricorso all'enfasi e alla retorica.

La linea del ragionamento gramsciano è abbastanza riconoscibile, nonostante i buchi lasciati dalla censura, e nonostante un probabile refuso tipografico [3]. Comunque, in un poscritto all'articolo del giorno successivo (Le vie della divina provvidenza, 21 ottobre 1918), Gramsci scrive:

P.S. Nell'articolo pubblicato ieri sul giudice Emanuele Pili la censura ha lasciato solo la parte «floreale» che può far supporre aver noi scritto un puro pamphlet per insolentire un magistrato. La censura ha imbiancato le giustificazioni delle insolenze: la giustificazione filosofica trovata nella Logica del senatore Benedetto Croce; la giustificazione storica trovata in una notizia pubblicata dal «Journal des Débats» l'8 novembre 1817 (milleottocentodiciassette!), la giustificazione costituzionale trovata nello Statuto albertino. Un'insolenza giustificata da «pezze» di tal genere crediamo non sia piú insolenza, ma espressione plastica della imparziale giustizia. La censura pertanto ci ha solo diffamati, senza che le leggi ci diano il modo di dar querela.

La "giustificazione filosofica" delle critiche che Gramsci rivolge al magistrato corrisponde, lo abbiamo visto, ad una citazione da Croce. Rimane la curiosità di sapere quali potessero essere le altre due "giustificazioni"  imbiancate dalla censura.

La "giustificazione costituzionale", che corrisponde alla lacuna di cinque righe, si trova, dice Gramsci, nello Statuto albertino; e potrebbe forse trattarsi di uno degli articoli che, in quel testo costituzionale, tutelavano i diritti civili: per esempio l'art. 26, secondo comma, "niuno può essere arrestato e tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge, e nelle forme che essa prescrive".

Naturalmente, non è da pensare che Gramsci si facesse particolari illusioni circa l'effettività delle garanzie prescritte dallo Statuto. Sappiamo, invece, che Gramsci sempre ritenne la borghesia italiana incapace di creare un vero Stato di diritto che tutelasse le libertà individuali [4]. Un articolo di Gramsci di qualche anno successivo a quello che stiamo ora esaminando (Lo Stato italiano, in "L'Ordine Nuovo", 7 febbraio 1920) contiene una puntuale critica, da questo punto di vista, allo Statuto albertino:

Lo Stato italiano [...] non ha mai neppure tentato di mascherare la dittatura spietata della classe proprietaria. Si può dire che lo Statuto albertino sia servito a un solo fine preciso: a legare fortemente le sorti della Corona alle sorti della proprietà privata. I soli freni infatti che funzionano nella macchina statale per limitare gli arbitrî del governo dei ministri del re sono quelli che interessano la proprietà privata del capitale. La Costituzione non ha creato nessun istituto che presidî almeno formalmente le grandi libertà dei cittadini: la libertà individuale, la libertà di parola e di stampa, la libertà di associazione e di riunione. Negli Stati capitalistici, che si chiamano liberali democratici, l'istituto massimo di presidio delle libertà popolari è il potere giudiziario: nello Stato italiano la giustizia non è un potere, è un ordine, è uno strumento della Corona e della classe proprietaria. 

Gramsci sottintendeva questo tipo di considerazioni anche all'articolo qui in commento, laddove scriveva che lo Stato italiano "almeno giuridicamente" (cioè solo formalmente) era costituzionale, ed era "parlamentare per tradizione", nel senso che lo Statuto albertino non istituiva una vera e propria democrazia parlamentare, bensì l'ordinamento parlamentare dello Stato derivava da una semplice consuetudine che poteva essere in ogni momento abrogata: così come aveva proposto di fare Sidney Sonnino nel suo articolo del 1897, appropriatamente richiamato da Gramsci, Torniamo allo Statuto!,  e come poi farà il fascismo.

Tuttavia, il fatto che la monarchia sabauda fosse uno Stato di diritto carente e imperfetto non avrebbe dovuto esimere il magistrato dall'applicare comunque quelle garanzie (pur se insufficienti) che la legge disponeva a favore degli imputati: "come giudice questa apparenza della realtà doveva solo importare" al giudice Pili, osserva giustamente Gramsci.

La "giustificazione storica", che corrisponde alla lacuna di venticinque righe, è data (scrive Gramsci) da una notizia pubblicata sul numero dell'8 novembre 1817 del "Journal des Débats". Internet consente oggi di consultare facilmente quel numero di giornale per cercare quale potesse essere la notizia che costituiva la "giustificazione storica" invocata da Gramsci.

Una delle notizie ivi contenute, che possono essere state utilizzate da Gramsci ai fini del suo commento, è una corrispondenza dalla Gran Bretagna datata 3 novembre, che riporto qui di seguito in una mia traduzione (il testo originale è in nota):

Quattro individui di nome Booth, Brown, Jackson e King, prima delle ultime assisi di Derby, erano stati condannati a morte per crimine di ribellione. Condotti sul patibolo, al momento stesso della morte hanno avuto l'audacia empia di arringare la folla, affinché li venisse a liberare. Questa folla era composta da loro vecchi amici che li avevano frequentemente visitati in carcere; ma il luogo dell'esecuzione era sorvegliato da folti distaccamenti di cavalleria e di fanteria, e la legge ha avuto esecuzione [5].

Inizialmente ho pensato che questa notizia potesse aver attratto l'attenzione di Gramsci (per analogia con i fatti di Torino) perché riferita a un episodio di ribellione delle classi subalterne conclusosi con una condanna penale. Episodio che forse è leggibile nel quadro della fase di irrequietezza sociale che fu caratterizzata, in Gran Bretagna, dalle proteste contro la legge sul grano del 1815, fase che sfociò nel massacro di Peterloo.

Tuttavia, non ho trovato alcun elemento che potesse suffragare questa ipotesi. Non è chiaro neanche se i quattro uomini giustiziati a Derby nel 1817 siano stati effettivamente condannati a morte per reati politici, o non piuttosto per reati comuni; in un elenco dei giustiziati nel carcere di Derby, compilato da Celia Renshaw, una storica locale, questi Booth, Brown, Jackson e King risultano essere stati condannati per aver appiccato il fuoco a dei covoni di paglia [6]. Inoltre è noto che Gramsci non amava gli atteggiamenti tribunizi e teatrali, né apprezzava particolarmente i gesti individuali di ribellione: lo si evince dal suo stesso comportamento di imputato durante il "processone" del 1928 [7], nonché dal suo commento, contenuto nei Quaderni del carcere, ad un libro che raccoglieva i resoconti di una serie di processi contro anarchici libertari [8]. Perciò mi sembra improbabile che, nel suo corsivo del 1918 che stiamo ora commentando, Gramsci possa aver preso ad esempio il comportamento di quattro condannati a morte per reati contro il patrimonio che, dal patibolo, incitano la folla alla rivolta.

C'è però un'altra notiziola, sempre nella prima pagina  del "Journal des Débats" dell'8 novembre 1817, che potrebbe aver attirato l'attenzione di Gramsci. Si tratta di una corrispondenza da Losanna datata primo novembre:

Il Cantone Esterno di Appenzell ha da poco emesso una singolare sentenza contro un ragazzino accusato di alcuni piccoli furti. Lo hanno condannato a 50 fl. di ammenda e a trenta colpi di verga. Gli sarà inoltre assegnato un posto particolare in chiesa per un periodo di due anni: dovrà trovarsi colà per due volte ogni domenica, e sarà punito severamente in caso d'inosservanza [9].

In questa notizia di cronaca (un ragazzino condannato con sentenza penale ad andare a messa due volte la settimana) troviamo un esempio estremo e grottesco di quella perniciosa, pre-moderna confusione tra diritto e morale, che Gramsci stigmatizza nella sua polemica col giudice relatore della sentenza sui fatti di Torino. Perciò ritengo che sia stata questa la pezza giustificativa di quella parte dell'argomentazione gramsciana, che la censura ha cancellato lasciando nell'articolo un buco di venticinque righe.

Note

[1] Sempre secondo l'apparato critico dell'edizione citata, la sentenza fu emessa dal Tribunale militare di Torino il 2 agosto 1918; il testo della sentenza è reperibile in "Rivista storica del socialismo", n. 2, 1960.

[2] A. Gramsci, Sotto la Mole, ed. cit., pp. 447-48. L'articolo è stato poi raccolto nella più recente edizione degli scritti gramsciani precarcerari: A. Gramsci, Il nostro Marx 1918-1919, a cura di Sergio Caprioglio, Einaudi, Torino 1984, pp. 360-2. In Internet si trova qui: http://www.liberliber.it/mediateca/libri/g/gramsci/sotto_la_mole/pdf/sotto__p.pdf, p. 269.

[3] "Passare l'esatta commisurazione alla sua entità di una pena contemplata nel codice" è frase di cui si capisce il senso, ma che sembra guasta anche grammaticalmente. Penso che Gramsci abbia invece scritto "fissare l'esatta commisurazione della sua entità ad una pena contemplata nel codice".

[4] Cfr. Leonardo Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (1914-1919), Carocci, Roma 2011, pp. 162-6.

[5] Quatre individus nommés Booth, Brown, Jackson et King, antérieurement aux dernières assises de Derby, avoient été condamnés à mort pour crime de rebellion. Amenés sur l'échafaud, ils ont eu, même au moment de la mort, l'audace impie de haranguer la multitude, et de l'engager à venir les délivrer. Cette multitude étoit composée de leurs anciens amis qui les avoient fréquemment visités dans leur prison; mais le lieu de l'exécution étoit gardé par de forts détachements de cavalerie et d'infanterie, et la loi reçut son exécution.


[7] Cfr. Giuseppe Fiori (a cura di), Antonio Gramsci: cronaca di un verdetto annunciato, I Libri de "l'Unità", supplemento al numero del 4 aprile, Roma 1994. 

[8] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 6-7 e 1896-7.

[9] Les Rhodes extérieurs d'Appenzell viennent de rendre une singulière sentence contre un enfant accusé de quelques petits vols. Ils l'ont condamné à 50 fl. d'amende et à trente coups de bâtons. Il lui sera d'ailleurs assigné une place particulière à l'église pendant deux ans; il devra s'y trouver deux fois chaque dimanche sous des peines séveres.

giovedì 22 marzo 2012

La Quinta sinfonia di Brahms

Vogliamo oggi parlare della meno eseguita fra le sinfonie di Brahms: la Sinfonia n. 5 in do maggiore, op. 123.

Questa sinfonia è il "canto del cigno" del grande musicista, che la terminò nel 1898, pochi mesi prima del suo definitivo crollo psichico.

Brahms visse ancora una decina d'anni chiuso nel manicomio di Amburgo, dove, secondo le relazioni cliniche e le testimonianze del personale ospedaliero, condusse una vita vegetativa, completamente immemore, punteggiata da intervalli di coscienza (ma non di lucidità), durante i quali il povero Brahms sosteneva di essere una taverniera; in tale sua immaginaria qualità di ostessa di una bettola di infimo ordine, Brahms interloquiva coi medici e gli infermieri, scambiandoli per avventori del suo locale. Lo si poteva allora udire in tutto il manicomio mentre, con voce stridula, urlava frasi del tipo: "Quante birre al tavolo sei?" - Tale scena penosa, su cui i biografi di Brahms hanno mantenuto, fino a tempi recenti, un imbarazzato silenzio, si ripeteva una o due volte la settimana.

Si direbbe che l'incombente follia abbia proiettato la sua oscura ombra anche sulla ricezione di quest'ultima opera brahmsiana, che già al suo apparire lasciò perplessi ascoltatori e critici, innanzitutto per la sua durata stranamente breve: la sinfonia dura circa venti o venticinque minuti, a seconda delle interpretazioni (diciotto minuti nella lettura di Toscanini, ventisette in quella di Klemperer; un'incisione dal vivo di Celibidache, con l'orchestra sinfonica della RAI di Napoli, arriva ai quaranta minuti, ma solo perché il direttore allunga fino all'inverosimile gli intervalli fra un movimento e l'altro). Decisamente poco per il pubblico dell'epoca, abituato al gigantismo formale.

Un altro motivo di stupore derivò poi dalla strumentazione, che comprende, oltre al solito organico orchestrale, anche una fisarmonica, un mandolino e un sassofono. Inoltre nell'ultimo movimento è introdotta una voce di basso.

Il primo movimento, Allegro amabile, in forma sonata, inizia con il primo tema, esposto dai soli archi. E' una melodia languida, per non dire sensuale, costruita sulle note Do - La - La - Mi bemolle - Do- Si. In tedesco, queste note si scrivono C - A- A- Es - C - H; si tratta perciò di un chiaro riferimento al nome di Clara Schumann, la musicista per la quale, com'è noto, Brahms nutrì a lungo una segreta e infelice passione. Dopo un ponte modulante, si passa al secondo tema, che è costituito, abbastanza sorprendentemente, dalla ben nota canzone goliardica italiana detta "delle osterie". Il tema viene ripetuto varie volte, con un crescendo rossiniano inconsueto in Brahms, passando da una sezione all'altra dell'orchestra, in modo sempre più insistente. Lo sviluppo è costituito da una ingegnosa combinazione contrappuntistica fra il primo tema e le ultime battute del secondo tema (quelle che, nel testo della canzone, corrispondono alle parole "Dammela a me, biondina, dammela a me, biondà"). La ripresa è assai regolare, ed è seguita da una coda in cui Brahms cita la melodia di un'altra canzone goliardica, Gaudeamus igitur, già da lui utilizzata nella sua Ouverture accademica, op. 80.

Il secondo movimento, Andante comodo, è in forma tripartita. Qui, dopo le stravaganze del primo tempo, ritroviamo con piacere il consueto Brahms di tanti suoi andanti sinfonici: nobile, compassato, un tantino soporifero. La parte centrale dell'Andante si distingue per il finissimo dialogo strumentale fra il sassofono e il mandolino, su una melodia che presenta sottili analogie strutturali con il tema dell'Andante del Trio op. 17 di Clara Schumann.

Non si discosta dal sostanziale classicismo dell'Andante il Minuetto con trio che costituisce il terzo movimento della sinfonia: anzi, questo Minuetto è così ostentatamente haydniano, così settecentesco in modo quasi iperrealistico, che nell'ascoltatore inizia a farsi strada il dubbio se Brahms stia facendo sul serio, e se, a questo punto, ci stia ancora con la testa.

Ogni dubbio viene meno con l'inizio del famigerato quarto movimento. Dapprima entra la fisarmonica solista, proponendo un Recitativo strumentale di sedici battute che non si sa veramente come definire. Dopodiché il basso, senza alcun accompagnamento strumentale, intona alcuni frammenti di Saffo, ordinati dallo stesso Brahms in una sequenza, di cui si ricorderà quarant'anni dopo il nostro Quasimodo nella sua traduzione dei lirici greci:

Tramontata è la luna
e le Pleiadi a mezzo della notte;
anche giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola.
Scuote l'anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce;
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele;
e soffro e desidero.


E' difficile ascoltare questo recitativo senza provare disagio: il basso, infatti, inizia nel proprio registro centrale, ma poi sale gradualmente, terminando su delle note che si trovano talmente oltre il limite della sua estensione, che finora nessun cantante è riuscito ad intonarle se non in falsetto. Ebbene sì: qui al compositore ha decisamente dato di volta il cervello.

A questo punto entra l'orchestra, attaccando l'Allegretto, in forma di rondò, su cui il basso canta un testo, elaborato dallo stesso Brahms, tratto dal Cantico di Re Salomone. La singolare difficoltà di questa parte vocale, caratterizzata da repentini salti di registro, costituisce certamente uno dei motivi per i quali la Sinfonia n. 5 di Brahms viene eseguita così raramente, ma non è l'unico. Soprattutto è sconcertante la disinvoltura con cui Brahms si appropria di intere sequenze tratte dalla Traviata, dalla Carmen, dal Tristano di Wagner e dalla Manon Lescaut di Puccini, senza neppure sottoporle al lavorìo dell'elaborazione tematica e contrappuntistica di cui è maestro. No, qui Brahms prende interi brani di queste opere e li schiaffa pari pari nel suo rondò, che si trasforma così in una sorta di pot-pourri da operetta.

La Sinfonia n. 5 termina con un altro sberleffo musicale, questa volta affidato alla melodia della canzone napoletana "Oi Marì, oi Marì / quanto suonno aggio perso pe' tte!", eseguita all'unisono dall'intera orchestra e dal basso, per chiudere con un accordo violentemente dissonante che usa tutte e dodici le note della scala cromatica, più alcuni quarti di tono.

Mentre, come si è detto, i contemporanei di Brahms non nascosero l'inquietudine e l'imbarazzo di fronte a questa sinfonia, la critica novecentesca appare molto divisa. Il critico Giorgio Lukács, in una delle sue rare incursioni in ambito musicale, definisce la Quinta Sinfonia di Brahms "uno dei documenti più impressionanti della decadenza artistica e morale della borghesia capitalistica nella sua fase imperialista"; giudizio sostanzialmente riecheggiato da Teodoro Adorno, il quale ebbe a parlare, a proposito di questa sinfonia, di "evidente involuzione reazionaria, basata sulla negazione astorica della funzione sociale della relazione armonica, nella misura in cui il contrappunto, materialisticamente e dialetticamente inteso, cede il passo al costrutto timbrico falsamente progressivo, di carattere apoditticamente neoclassico, orientato a destra, prematurato e antani". La sinfonia fu invece molto lodata da Stravinsky e, ai nostri giorni, da Pierre Boulez, che ne ha dato l'interpretazione forse più vibrante.

Significativa, a suo modo, fu la reazione di Glenn Gould, il quale, durante un'intervista radiofonica col fido Bruno Monsaingeon, da questi interrogato su cosa ne pensasse della Quinta sinfonia di Brahms, per tutta risposta cominciò a ridere, dapprima sommessamente e poi in modo sempre più convulso e irrefrenabile, al punto che l'intervista dovette essere interrotta.

Ma è tempo di passare alla conoscenza diretta di questa composizione così controversa. Ecco il link, con l'avvertenza che, su alcuni browser e con sistemi operativi non aggiornati, la pagina potrebbe anche non aprirsi. Comunque, buon ascolto.

(Già pubblicato su Evulon).

martedì 6 marzo 2012

Su "My Favorite Things" di John Coltrane

Il 16 novembre 1959 debuttava a Broadway The Sound of Music, di Richard Rodgers e Oscar Hammerstein, uno dei musical più popolari di tutti i tempi anche grazie alla versione cinematografica che ne fu tratta nel 1965 (regia di Robert Wise, protagonista Julie Andrews, la versione italiana porta il titolo Tutti insieme appassionatamente).

Una particolare canzone tratta da questo musical ha avuto fortuna immensa. Di My Favorite Things, infatti, si contano centinaia di cover; l'elenco preparato dai redattori di Radio Rai è lungo sedici pagine.

Qui mi occuperò della versione forse più celebre, quella incisa in studio da John Coltrane il 21 ottobre 1960. Per capire quest'ultima, però, è opportuno partire dalla versione originale di Richard Rodgers. In questo articolo mi avvarrò dell'analisi condotta dal massimo studioso di Coltrane, il musicologo Lewis Porter, nella sua fondamentale monografia (Blue Train. La vita e la musica di John Coltrane, traduzione di Adelaide Cioni, Minimum Fax, Roma 2006, pp. 277-80).

La canzone è musicalmente molto semplice. Si tratta di un valzer in mi minore di quattro strofe, A-A-A'-B. Le prime tre strofe hanno la stessa musica, salvo che nella terza strofa, A', dove ci sono otto battute in maggiore. La quarta strofa, B, usa una diversa melodia e finisce in sol maggiore.

Qui di seguito copio il testo della canzone, di Oscar Hammerstein, cui faccio seguire una traduzione, volutamente molto pedestre, che ho preparato grazie all'ausilio del traduttore automatico di Google:



(A) "Raindrops on roses and whiskers on kittens
Bright copper kettles and warm woolen mittens
Brown paper packages tied up with strings
These are a few of my favorite things

(A) Cream colored ponies and crisp apple streudels
Doorbells and sleigh bells and schnitzel with noodles
Wild geese that fly with the moon on their wings
These are a few of my favorite things

(A') Girls in white dresses with blue satin sashes
Snowflakes that stay on my nose and eyelashes
Silver white winters that melt into springs
These are a few of my favorite things

(B) When the dog bites
When the bee stings
When I'm feeling sad
I simply remember my favorite things
And then I don't feel so bad!"

"Gocce di pioggia su rose e baffi di gattini
Bollitori di rame luminosi e caldi guanti di lana
Pacchetti di carta marrone legati con corde
Queste sono alcune delle mie cose preferite

Pony color crema e croccanti struedel di mele
Campanelli e campanelli da slitta e schnitzel con tagliatelle
Le oche selvatiche che volano con la luna sulle ali
Queste sono alcune delle mie cose preferite

Ragazze in abiti bianchi con sciarpe di raso blu
Fiocchi di neve che rimangono sul mio naso e sulle ciglia
Inverni bianchi d'argento che si sciolgono in primavere
Queste sono alcune delle mie cose preferite

Quando il cane morde
Quando l'ape punge
Quando mi sento triste
Non ho che da ricordarmi delle mie cose preferite
E allora non mi sento così male!"

The Sound of Music è ambientato a Salisburgo, fra le due guerre. Richard Rodgers ha naturalmente cercato di tener conto della tradizione musicale austriaca: My Favorite Things, come detto, è un valzer; negli altri brani si sentono riferimenti allo jodler, al laendler, al canto gregoriano, ecc. In un numero c'è anche un singolare omaggio ad Haydn: la canzone So long, farewell è eseguita da un coro di bambini che, uno alla volta, abbandonano il proscenio, finché a cantare rimane una sola bambina, così come, nel finale della Sinfonia degli addii, tutti gli esecutori smettono uno alla volta di suonare facendo concludere la sinfonia da un solo violinista.

Come ci si potrebbe aspettare, il testo di My Favorite Things fa uso di un immaginario prettamente alpino, o comunque nordeuropeo: bollitori per il té, guanti di lana, slitte che corrono sulla neve... Se di questa canzone volessimo realizzare un video-clip animato, seguendo pedissequamente il testo, dovremmo adoperare in prevalenza le tinte chiare, e in particolare il colore bianco, la cui presenza, in corrispondenza della terza strofa (quella con le otto battute in maggiore), diventa quasi ossessiva: abiti bianchi, fiocchi di neve, inverni bianchi... (Nella versione cinematografica quest'aspetto "eurocentrico" della canzone è ancora più sottolineato dal forte accento british di Julie Andrews).

Molti si sono chiesti cosa potesse avere indotto un artista come John Coltrane, che da lì a poco sarebbe diventato un'icona della cultura afro-americana, a musicare una sua versione di questo brano, il quale inizialmente c'entrava così poco con il jazz.

Secondo Lewis Porter, è un errore "dare per scontato che Coltrane trovasse la canzone sciocca e che per questo volesse abbellirla". Al contrario, Coltrane ammirava sinceramente questa canzone e, nella sua versione, la trattò "con rispetto". Il "messaggio" della canzone, "che le cose buone ci aiutano a superare le cattive", è secondo Porter "del tutto sensato e prezioso - per nulla sciocco - è solo che utilizza esempi alla portata di un bambino, perché nel copione la canzone si rivolge a dei bambini".

Qui però l'ottimo Porter ha preso una cantonata. Nel film, è vero, Julie Andrews canta la canzone a dei bambini. Il film, però, è del 1965, quindi è posteriore all'incisione di John Coltrane, che a quell'epoca poteva conoscere solo la versione teatrale di questo musical; e, nella versione teatrale, la protagonista canta My Favorite Things in una delle scene iniziali, che si svolgono in un convento di suore, e non la canta ai bambini, bensì alla Madre Badessa del convento.

Sembra, in realtà, che Coltrane non fosse attratto tanto dal "messaggio" della canzone, quanto invece dalla sua manipolabilità sul piano strettamente musicale. Ecco come si espresse Coltrane in un'intervista: "Questo valzer è fantastico: se lo suoni lento, senti un elemento di gospel che non è per niente sgradevole; se lo suoni veloce, possiede altre innegabili qualità. E' molto interessante scoprire un terreno che si rinnova a seconda dell'impulso che gli dai".

Quindi, si direbbe che il valzer di Rodgers fosse per Coltrane quello che il valzer di Diabelli era stato per il Beethoven dell'op. 120: poco più che un pretesto, un canovaccio utile per imbastire una serie potenzialmente infinita di variazioni che poco o nulla hanno a che fare con il tema originale. E, in verità, Coltrane eseguì in concerto My Favorite Things moltissime volte (secondo Wikipedia, sono state documentate su nastro non meno di 45 esecuzioni), creandone versioni sempre più lontane dalla canzone originale, fino a renderla irriconoscibile.

La versione sull'album si compone di un'introduzione di quattro battute, suonata due volte; viene poi esposto un vamp (breve inciso ritmico, costantemente ripetuto, che è per il jazz quello che nel rock si chiama riff e nella musica barocca si chiama ostinato), cui fanno seguito un primo assolo di Coltrane, un altro assolo di McCoy Tyner al pianoforte, e un assolo finale ancora di Coltrane, per complessivi 14 minuti circa. Nel primo assolo Coltrane esegue le prime due strofe (A) in minore, poi c'è un interludio in maggiore, poi altre due strofe (A) in minore. Gli altri due assoli seguono lo stesso schema, salvo che per la parte finale dell'assolo conclusivo di Coltrane, di cui dirò fra poco.



La prima cosa che si nota all'ascolto è che Coltrane ha spostato molto lontano dall'Europa il baricentro etnico del brano. La ripetizione ossessiva, ipnotica, di un inciso ritmico in tempo dispari; la voce acuta dello strumento a fiato (un sax soprano, fino ad allora poco usato nel jazz); il clima di fissità tonale e il senso del tempo molto dilatato, sono tutti elementi che richiamano la musica orientale. (A me il brano fa venire in mente una danza sufi). Porter nota che Coltrane era appassionato di musica indiana, era un ammiratore di Ravi Shankar, ed era profondamente interessato alla musica folk e modale di tutto il mondo, nonché alle scale pentatoniche (pare che certe volte, nelle sue esercitazioni, eseguisse col sassofono determinate sequenze del Concerto per orchestra di Béla Bartók). Sempre secondo Porter, in My Favorite Things si possono anche scorgere influenze musicali provenienti dall'Africa occidentale.

La cosa per me più sorprendente è che, nella musica originale di questa canzone, Coltrane abbia sentito un "elemento gospel". Per quanto ascolto e riascolto la canzone di Rodgers e Hammerstein, devo confessare che questo elemento gospel non riesco assolutamente a percepirlo. Ma è significativo che, per Coltrane, la canzone avesse qualcosa a che fare con le radici stesse della musica nera americana. Questo forse ci aiuta a far luce su un'altra singolarità della versione di Coltrane.

Abbiamo detto che la versione coltraniana di My Favorite Things è basata sulla strofa A della musica originale. Che fine ha fatto la strofa B, quella il cui testo contiene, secondo Porter, il "messaggio" della canzone e che si conclude in modo maggiore?

Alla fine del suo assolo conclusivo, Coltrane esegue anche la strofa B, senza apportare particolari variazioni alla musica. Però la esegue in mi minore, dandole, secondo Porter, "un effetto più pensoso, riflessivo".

Il testo originale della strofa B fa riferimento ad api che pungono e a cani che mordono, per delineare scherzosamente una situazione da "giornata storta", in cui le cose, chissà perché, non vanno per il verso giusto. Ma questa situazione si supera (dice la canzone) richiamando alla mente le piccole cose belle della vita. Se si fa in questo modo, l'atteggiamento cambia e ci si accorge che non si sta poi così male. La canzone si chiude così, trionfalmente, in sol maggiore.

Qui, però, è meglio fare ricorso alla bella traduzione ritmica di Antonio Amurri (quella utilizzata nella versione italiana del film), che ha colto al meglio il senso di questa strofa:



"Se son triste, infelice, e non so il perché,
io penso alle cose che amo di più
e torna il seren per me!"

Immaginiamo ora di sentire queste parole sovrapposte al mi minore del sax di John Coltrane, nelle battute finali del suo secondo assolo (a partire dal minuto 12'33''). L'effetto è di un'ironia indefinibile, profonda, pungente, tristemente consapevole. Uno speciale tipo di sarcasmo, composto e controllatissimo, ma inequivocabile.

Per me (e sottolineo: per me) in questo minuto e dodici secondi di musica c'è l'essenza stessa del jazz. Ogni volta che l'ascolto, mi commuovo.

Provo a spiegarmi meglio.

Il cantante e chitarrista Huddie W. Leadbetter (1885-1949), uno fra i musicisti più influenti della musica nera americana del secolo ventesimo, tentò una volta di definire a parole quel particolare complesso psicologico che porta il nome di blues. Possiamo leggere le sue parole come una specie di negativo fotografico della canzone di Rodgers e Hammerstein:

"Quando la notte sei sdraiato nel letto, e ti giri da una parte e dall'altra senza riuscire a prendere sonno, non c'è niente da fare. I blues si sono impadroniti di te... Quando ti svegli al mattino, ti siedi sulla sponda del letto, e puoi avere vicino a te padre e madre, sorella e fratello, il tuo ragazzo o la tua ragazza, ma non hai voglia di parlargli... Non ti hanno fatto niente, e tu non hai fatto niente a loro, ma che cosa importa? I blues si sono impadroniti di te".

Così commenta Arrigo Polillo nel suo classico Jazz. La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana (Mondadori, Milano 2009, p. 43): "Avere i blues è qualcosa di diverso dall'essere triste dell'uomo bianco. E' essere afflitti da un tedio esistenziale, da una malinconia greve che non lascia spazio alle fantasticherie, vuol dire autocommiserazione, rassegnazione, vuol dire disperazione sorda, grigiore, miseria. E' una poesia fondata sulle cose di tutti i giorni, su personaggi familiari, visti in una luce realistica, con occhio disincantato. Non c'è, né ci vuol essere, nel blues, trasfigurazione lirica, che è un lusso da bianchi; non c'è dramma, perché il dramma è fatto di ombre ma anche di luci. C'è invece la consapevolezza di una tragedia in atto, che non finirà mai. Il blues singer non canta la vita, ma il non morire, parla sempre di ciò che non ha e che non avrà mai".

Ecco il senso del mi minore con cui si conclude My Favorite Things di John Coltrane. Non c'è consolazione, e non c'è neanche protesta. E' la constatazione oggettiva di una situazione fondamentalmente tragica. Il "messaggio" della canzone di Rodgers e Hammerstein è sovvertito. Vista in questa luce, non solo la canzone, ma la stessa cultura (musicale e non solo) cui essa fa riferimento, viene radicalmente messa in questione.

giovedì 1 marzo 2012

Sull'"Elogio dei riformisti" di Roberto Saviano

1. Affinità e divergenze fra Saviano e noi. Considero Gomorra uno fra i libri letterariamente più importanti di questi anni nonché fra i capolavori del giornalismo d'inchiesta italiano. Ammiro e rispetto Roberto Saviano, anche se a volte non sono stato d'accordo con lui su alcune delle sue prese di posizione (ad es. sulla politica dei governi israeliani, oppure sugli scontri di piazza che hanno contrassegnato l'ultima fase del governo Berlusconi).

Ho trovato molto superficiale e semplicistico l'articolo di Saviano uscito su "La Repubblica" del 28 febbraio, dedicato all'elogio del riformismo.

Prendendo spunto da un recente libro di Alessandro Orsini sulla storia della sinistra italiana, libro che contrappone Turati a Gramsci, Saviano traccia una riga sulla lavagna, mettendo da una parte i riformisti e dall'altra i comunisti. I primi sarebbero pacati, realisti, tolleranti e liberali, i secondi sarebbero fanatici, violenti, malati di dogmatismo e d'ideologia.

Scrive Saviano: "i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto rileggere le parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci definiva un avversario, non importa quale: 'La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato'. Invitava i suoi lettori a ricorrere alle parolacce e all'insulto personale contro gli avversari che si lamentavano delle offese ricevute [...]. Arrivò persino a tessere l'elogio del 'cazzotto in faccia' contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un 'programma politico' e non un episodio isolato".

Viceversa, sempre secondo Saviano:

"in quegli stessi anni Filippo Turati, dimenticato pensatore e leader del partito socialista, conduceva una tenacissima battaglia per educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di coniugare socialismo e liberalismo".


Questa contrapposizione fra estremisti e riformisti, dice Saviano, si protrae fino ad oggi:

"Naturalmente, oggi, nel Pd erede del Pci, non c'è più traccia di quel massimalismo verboso e violento, e anche il linguaggio della Sel di Vendola è molto meno acceso. Ma c'è invece, fuori dal Parlamento, una certa sinistra che vive di dogmi. Sono i sopravvissuti di un estremismo massimalista che sostiene di avere la verità unica tra le mani", sono quei "pacifisti talmente violenti da usare la pace come strumento di aggressione per chiunque la pensi diversamente". Eccetera.

Quindi tutto lineare, nello schema di Saviano. Tutto semplice. Riformisti, buoni, in parlamento; comunisti, fuori dal parlamento, cattivi. Chiaro, no?

E però, se si va a verificare nel dettaglio gli esempi storici addotti da Saviano, ecco che le cose si complicano.

2. Cosa c'era prima degli assorbenti. Vediamo ad esempio la prima frase "incriminata". Di un suo avversario politico ("non importa quale", dice Saviano), Gramsci scrisse: "La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato".

La similitudine usata da Gramsci, al nostro orecchio di contemporanei, suona senza dubbio molto sgradevole. Intollerabilmente sessista, fra l'altro. Proviamo però a collocarla nel suo contesto. La frase è tratta da un articolo di Gramsci, allora venticinquenne, pubblicato sull'edizione torinese dell'"Avanti!" il 19 aprile 1916. In quel periodo la redazione di Torino dell'"Avanti!", di cui Gramsci era giornalista, stava conducendo una campagna di stampa sugli sprechi e sulle ruberie di cui si erano resi responsabili i promotori dell'Esposizione Universale di Torino del 1911. Come spesso succede in Italia quando si tratta di "grandi opere", anche questa era stata accompagnata da malversazioni, che Gramsci e i giornalisti dell'"Avanti!" avevano puntualmente denunciato.

Fra i bersagli di questa campagna di stampa c'era il conte Delfino Orsi, che all'epoca faceva parte della direzione della "Gazzetta del Popolo", un giornale monarchico, filogovernativo e interventista. L'articolo di Gramsci del 19 aprile 1916 è appunto una risposta ad un altro giornalista che aveva accusato l'"Avanti!" di aver attaccato Delfino Orsi non per il ruolo di quest'ultimo nello scandalo dell'Esposizione Universale, bensì invece perché Orsi era "una delle più influenti figure dell'interventismo subalpino".

Teniamo sempre presente il contesto storico. In Italia, nel 1916, lo scontro politico fra governo e opposizione era polarizzato sul problema della guerra. Era soprattutto lo scontro fra interventisti e pacifisti. Era in corso la Prima guerra mondiale, un conflitto che oggi praticamente tutti gli storici valutano come un'orrenda ecatombe, una catastrofe che segnò l'inizio del declino della civiltà europea, e che, in Italia, aprì la via al fascismo. In Italia il bilancio della guerra fu di circa 680.000 morti e quasi 500.000 invalidi permanenti. Il Partito Socialista Italiano, nel quale all'epoca militavano sia Gramsci sia Turati, era su posizioni pacifiste, e si opponeva compattamente alla guerra. A favore della guerra erano invece i nazionalisti, i liberali e il Partito Socialista Riformista Italiano, composto perlopiù da riformisti, come Bonomi e Bissolati, che erano stati espulsi dal P.S.I. già nel 1912 per il loro appoggio alla guerra di Libia.

Tale era il contesto della polemica fra l'"Avanti!" di Gramsci da una parte, e la "Gazzetta del Popolo" di Delfino Orsi dall'altra.

Quando, nell'agosto 1917, a Torino la popolazione diede vita ad una rivolta spontanea contro la guerra e contro la mancanza di pane (rivolta che fu ovviamente repressa nel sangue, con circa 50 morti e 200 feriti fra gli operai e le loro famiglie), la "Gazzetta del Popolo" di Delfino Orsi fu tra gli organi di stampa che giustificarono la repressione.

Più tardi, coerentemente, Delfino Orsi fu deputato nel Parlamento fascista, ed era ancora tale quando morì nel 1929 (mentre Gramsci era in carcere). Il gerarca Federzoni, nel suo elogio funebre pronunciato alla Camera dei Deputati l'11 dicembre 1929, disse di Orsi fra l'altro: "egli poté rinverdire i fasti patriottici della Gazzetta del Popolo, levando ancora la gloriosa bandiera del Risorgimento per le nuove battaglie dell'intervento nella grande guerra, della difesa delle aspirazioni nazionali, della rivoluzione fascista".


Delfino Orsi era appunto l'uomo che Gramsci paragonò ad uno "straccio mestruato". Un epiteto certamente poco gentile. Ma possiamo veramente dire, con Saviano, che "non importa quale" individuo egli fosse, né in quale periodo storico fosse situata la polemica fra lui e Gramsci?

Che diremmo di un giornalista il quale scrivesse, di alcuni suoi concittadini (non importa quali, direbbe Saviano), che essi sono "vigliacchi, in realtà", un "manipolo di killer", "abbrutiti e strafatti", un "branco di assassini" che "vivono come bestie"? Sono insulti pesanti e hanno ben poco di mite e di liberale. Ma se collochiamo questi epiteti nel contesto dell'articolo da cui sono tratti, scopriamo che si riferiscono ad una banda di camorristi responsabili di svariati omicidi, e che l'autore del pezzo è Roberto Saviano ("la Repubblica", 22 settembre 2008). Dobbiamo condannare il giornalista per la sua eccessiva violenza verbale? O non dobbiamo piuttosto ritenere che l'indignazione di Saviano, seppure si esprima in termini poco urbani, sia alquanto giustificata dalle circostanze?

3. La nobile arte. Vediamo, ancora, un altro passo gramsciano cui si riferisce Roberto Saviano. Si tratta dell'articolo intitolato "Elogio del cazzotto", uscito sempre sull'"Avanti!" il 12 giugno 1916. L'episodio cui si riferiva Gramsci in questo articolo era il seguente. Dei deputati socialisti, come gesto dimostrativo, avevano lanciato nell'aula di Montecitorio alcune cartoline con l'effige di parlamentari russi che erano stati deportati in Siberia a causa della loro opposizione alla guerra (c'era ancora il regime assolutista dello zar, e la Russia era alleata in guerra con le potenze della Triplice Intesa, con l'Italia, e contro la Germania e l'Impero asburgico). Un deputato interventista, Giuseppe Bevione, in quell'occasione accusò i socialisti di essere al soldo del nemico. Ne nacque un tafferuglio, durante il quale il socialista Nino Mazzoni colpì Bevione con un pugno. Questo, nello specifico, fu il "cazzotto" cui si riferisce Gramscì nel suo articolo, scrivendo fra l'altro:

"Non siamo entusiastici ammiratori del diritto del pugno; eppure quei pugni vibrati robustamente sul ceffo di Bevione ci riempiono di giubilo e di ammirazione".

Anche qui: possiamo dire che sia davvero ininfluente collocare la citazione di Gramsci nel suo contesto?

4. Vota Antonio. Veniamo ora ad un'altra delle dicotomie che Roberto Saviano delinea nel suo pezzo: quella fra opposizione parlamentare Vs. opposizione extraparlamentare. La prima riformista e "buona", la seconda estremista e "cattiva". E confrontiamo questa dicotomia con un esempio storico.

Nel giugno 1924, dopo il rapimento di Giacomo Matteotti, i parlamentari dell'opposizione antifascista decisero di disertare le aule del Parlamento, dando così luogo a quella forma di protesta extraparlamentare che passò alla storia come "secessione dell'Aventino". Fra loro c'era Filippo Turati, assieme a tutti i socialisti riformisti. C'era anche la piccola pattuglia dei deputati comunisti, che però, nel novembre 1924, verificata l'inefficacia della protesta aventiniana, decisero di rientrare in Parlamento, dove rimasero a contrastare la maggioranza fascista, praticamente da soli, per altri due anni, fino a quando il partito comunista non fu messo fuori legge. (A che tipo di pacifica dialettica parlamentare fossero avvezzi i deputati fascisti lo si può vedere consultando la voce di Wikipedia dedicata a Francesco Misiano).

Quindi, ricapitolando. Nel 1925 abbiamo il socialista riformista Turati fuori dal parlamento. In parlamento c'è una maggioranza parlamentare "estremista" fascista e una minoranza comunista (parimenti "estremista" secondo Saviano) di cui Gramsci fa parte. Comunque si voglia giudicare la situazione, si tratta di un caso in cui la realtà storica si rivela più complessa dei rigidi schematismi delineati da Saviano.

5. Conclusione. Con tutto questo discorso non voglio dire, naturalmente, che la violenza verbale nella lotta politica va sempre bene, che è sempre giustificata. Sono d'accordo con Saviano nel condannare certe forme di settarismo inutile e controproducente (di cui è un esempio il giudizio su Turati espresso da un Togliatti al peggio del suo stalinismo, citato da Saviano nel suo articolo). Né intendo affrontare discorsi astratti sul punto se sia meglio la lotta extraparlamentare o quella parlamentare.

Dico che ogni situazione fa storia a sé, che occorre giudicare caso per caso, e che generalizzazioni astratte e astoriche, come quella proposta da Saviano nell'articolo in questione, non hanno alcun significato.