E' successo che, preparando un commento all'ultima sortita di Saviano a proposito di storia della sinistra italiana, ho ripreso in mano, dopo anni, il vecchio volume dell'Einaudi (Torino, 1960) che raccoglie i corsivi pubblicati da Gramsci sull'"Avanti!" nella rubrica Sotto la Mole (1916-1920). Qui mi è capitato sotto gli occhi il commento di Gramsci alla sentenza sui "fatti di Torino", cioè (annotano i curatori dell'edizione) "lo sciopero generale per il pane e contro la guerra, che sfociò nella sommossa del 23-26 agosto 1917". [1]
Il commento di Gramsci fu pubblicato sull'"Avanti!" il 20 ottobre 1918: il testo, come di frequente, uscì con vistosi "vuoti" dovuti all'azione della censura. Eccolo qui di seguito [2].
BELLU SCHESC' E DOTTORI!
Il giudice Emanuele Pili non è senza storia, come gli uomini e i popoli felici. Ma la storia del giudice Emanuele Pili ha una lacuna; iniziatasi col protagonista autore drammatico, riprende ora col protagonista «ragionatore» di sentenze, e riprende con una gloriosa e strenua pugna: il «ragionamento» della sentenza per i fatti di Torino, che nell'ultimo numero della «Gazzetta dei tribunali» il misuratore di crani prof. Vitige Tirelli qualifica «dotta».
Benedetto Croce ha scritto: «Chi ha pratica dei tribunali sa che molto spesso un magistrato, presa la decisione e stabilita la sentenza, incarica un suo piú gio [dodici righe e mezzo censurate]. E il giudice giovane ha fatto sfoggio di dottrina; e il giudice giovane — poiché nella prima gíoventú aspirava alla gloria di Talia e dedicava le sue fresche energie intellettuali a scrivere commedie nei vari dialetti di Sardegna e non poté studiare tutti i risultati delle ultime ricerche sulla natura del diritto e delle costituzioni — ha ragionato [una riga censurata] nella sentenza dei fatti di Torino, rovistando nei vecchi cassettoni, rimettendo alla luce tutti gli imparaticci scolastici del primo anno universitario, quando ancora si frequentano le lezioni e si prendono gli appunti.
[Venticinque righe censurate].
Gli sono estranee le correnti del pensiero moderno che hanno ringiovanito tutta la dottrina dello Stato e del Giure — superando le concezioni puerilmente metafisiche della dottrina tradizionale, degli imparaticci da scoletta universitaria — colla riduzione dello Stato e del Giure a pura attività pratica, svolta come dialettica della volontà di potenza e non piú pietistico richiamo alle leggi naturali, ai sacrari inconoscibili dell'istinto avito, alla banale retorica dei compilatori delle storiette per la scuola elementare. Il «ragionamento» del giudice Pili è solo una filastroccola di banalità retoriche, di gonfiezze presuntuose: esso è il ridicolo parto di un fossile intellettuale, il quale non riesce a concepire che lo Stato italiano almeno giuridicamente (e come giudice questa apparenza della realtà doveva solo importare al «giovane» da tribunale) è costituzionale, ed è parlamentare per tradizione (l'on. Sonnino è gran parte dello Stato attuale, ma crediamo che il suo articolo Torniamo allo Statuto! non sia ancora diventato legge fondamentale del popolo italiano): [cinque righe censurate]. La «dottrina» del giovane da tribunale infatti si consolida (!) in esclamazioni enfatiche contro chi ha «resistito» o è accusato di aver resistito: non cerca (come era suo compito) di dimostrare, alla stregua delle prove concrete e sicure, un delitto per passare l'esatta commisurazione alla sua entità di una pena contemplata nel codice. No, il «giovane» vuole sfoggiare, come una contadina ricca del Campidano di Cagliari le vesti multicolori che hanno servito alle sue antenate per le nozze e per decine e decine di anni sono rimaste seppellite in un vecchio cassettone a fregi bestiali e floreali tra lo spigo e una dozzina di limoni: e sfoggia tutti i vecchiumi, tutti gli scolaticci dei vespasiani giuridici chiusi per misura d'igiene pubblica.
Il giudice Emanuele Pili ha scritto una commedia dialettale: Bellu schesc' e dottori! (che bel pezzo di... dottore!) L'esclamazione potrebbe essere la conclusione critica della lettura di una sentenza, cosí com'è il titolo di una commedia.
La prima lacuna è stata integrata facilmente dai curatori del testo gramsciano. Si tratta di una citazione dalla Logica di Croce, riportata come segue:
«Chi ha pratica dei tribunali sa che molto spesso un magistrato, presa la decisione e stabilita la sentenza, incarica un suo piú giovane collega di "ragionarla", ossia di apporre una parvenza di ragionamento a ciò che non è intrinsecamente e puramente prodotto di logica, ma è voluntas di un determinato provvedimento. Questo procedere, se ha il suo uso nella cerchia pratica o giuridica, è affatto escluso da quella della logica e della scienza» (B. CROCE, Logica come scienza del concetto puro, Bari 1917, pp. 87-88).
Quando Gramsci nel suo corsivo parla delle "correnti del pensiero moderno che hanno ringiovanito tutta la dottrina dello Stato e del Giure", si riferisce appunto alla filosofia del diritto di Benedetto Croce. Croce aveva infatti affermato l'assoluta separazione tra morale e diritto, e aveva sottoposto il diritto alle categorie dell'utile e della forza. Nella concezione di Croce, il diritto è forza, che viene applicata per il raggiungimento di uno scopo ritenuto (da chi agisce questa forza) utile; il diritto è inoltre amorale, in quanto prescinde dal giusto e dall'ingiusto.
E' interessante notare che qui Gramsci si serve della teoria del diritto di Croce per porre un'istanza di garantismo giuridico. Infatti, ciò che Gramsci rimprovera al giudice Pili, estensore della sentenza sui fatti di Torino, è di aver confuso il diritto con la morale. Il giudice avrebbe dovuto limitarsi a vagliare le prove, accertare se fosse stato commesso un reato, e, in caso affermativo, determinarne la pena secondo le norme del codice. Invece, questa sentenza (scrive Gramsci) pretende di condannare gli imputati non sulla base della legge, bensì sulla scorta di considerazioni di ordine moralistico, la cui infondatezza giuridica è mascherata dal ricorso all'enfasi e alla retorica.
La linea del ragionamento gramsciano è abbastanza riconoscibile, nonostante i buchi lasciati dalla censura, e nonostante un probabile refuso tipografico [3]. Comunque, in un poscritto all'articolo del giorno successivo (Le vie della divina provvidenza, 21 ottobre 1918), Gramsci scrive:
P.S. Nell'articolo pubblicato ieri sul giudice Emanuele Pili la censura ha lasciato solo la parte «floreale» che può far supporre aver noi scritto un puro pamphlet per insolentire un magistrato. La censura ha imbiancato le giustificazioni delle insolenze: la giustificazione filosofica trovata nella Logica del senatore Benedetto Croce; la giustificazione storica trovata in una notizia pubblicata dal «Journal des Débats» l'8 novembre 1817 (milleottocentodiciassette!), la giustificazione costituzionale trovata nello Statuto albertino. Un'insolenza giustificata da «pezze» di tal genere crediamo non sia piú insolenza, ma espressione plastica della imparziale giustizia. La censura pertanto ci ha solo diffamati, senza che le leggi ci diano il modo di dar querela.
La "giustificazione filosofica" delle critiche che Gramsci rivolge al magistrato corrisponde, lo abbiamo visto, ad una citazione da Croce. Rimane la curiosità di sapere quali potessero essere le altre due "giustificazioni" imbiancate dalla censura.
La "giustificazione costituzionale", che corrisponde alla lacuna di cinque righe, si trova, dice Gramsci, nello Statuto albertino; e potrebbe forse trattarsi di uno degli articoli che, in quel testo costituzionale, tutelavano i diritti civili: per esempio l'art. 26, secondo comma, "niuno può essere arrestato e tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge, e nelle forme che essa prescrive".
Naturalmente, non è da pensare che Gramsci si facesse particolari illusioni circa l'effettività delle garanzie prescritte dallo Statuto. Sappiamo, invece, che Gramsci sempre ritenne la borghesia italiana incapace di creare un vero Stato di diritto che tutelasse le libertà individuali [4]. Un articolo di Gramsci di qualche anno successivo a quello che stiamo ora esaminando (Lo Stato italiano, in "L'Ordine Nuovo", 7 febbraio 1920) contiene una puntuale critica, da questo punto di vista, allo Statuto albertino:
Lo Stato italiano [...] non ha mai neppure tentato di mascherare la dittatura spietata della classe proprietaria. Si può dire che lo Statuto albertino sia servito a un solo fine preciso: a legare fortemente le sorti della Corona alle sorti della proprietà privata. I soli freni infatti che funzionano nella macchina statale per limitare gli arbitrî del governo dei ministri del re sono quelli che interessano la proprietà privata del capitale. La Costituzione non ha creato nessun istituto che presidî almeno formalmente le grandi libertà dei cittadini: la libertà individuale, la libertà di parola e di stampa, la libertà di associazione e di riunione. Negli Stati capitalistici, che si chiamano liberali democratici, l'istituto massimo di presidio delle libertà popolari è il potere giudiziario: nello Stato italiano la giustizia non è un potere, è un ordine, è uno strumento della Corona e della classe proprietaria.
Gramsci sottintendeva questo tipo di considerazioni anche all'articolo qui in commento, laddove scriveva che lo Stato italiano "almeno giuridicamente" (cioè solo formalmente) era costituzionale, ed era "parlamentare per tradizione", nel senso che lo Statuto albertino non istituiva una vera e propria democrazia parlamentare, bensì l'ordinamento parlamentare dello Stato derivava da una semplice consuetudine che poteva essere in ogni momento abrogata: così come aveva proposto di fare Sidney Sonnino nel suo articolo del 1897, appropriatamente richiamato da Gramsci, Torniamo allo Statuto!, e come poi farà il fascismo.
Tuttavia, il fatto che la monarchia sabauda fosse uno Stato di diritto carente e imperfetto non avrebbe dovuto esimere il magistrato dall'applicare comunque quelle garanzie (pur se insufficienti) che la legge disponeva a favore degli imputati: "come giudice questa apparenza della realtà doveva solo importare" al giudice Pili, osserva giustamente Gramsci.
La "giustificazione storica", che corrisponde alla lacuna di venticinque righe, è data (scrive Gramsci) da una notizia pubblicata sul numero dell'8 novembre 1817 del "Journal des Débats". Internet consente oggi di consultare facilmente quel numero di giornale per cercare quale potesse essere la notizia che costituiva la "giustificazione storica" invocata da Gramsci.
Una delle notizie ivi contenute, che possono essere state utilizzate da Gramsci ai fini del suo commento, è una corrispondenza dalla Gran Bretagna datata 3 novembre, che riporto qui di seguito in una mia traduzione (il testo originale è in nota):
Quattro individui di nome Booth, Brown, Jackson e King, prima delle ultime assisi di Derby, erano stati condannati a morte per crimine di ribellione. Condotti sul patibolo, al momento stesso della morte hanno avuto l'audacia empia di arringare la folla, affinché li venisse a liberare. Questa folla era composta da loro vecchi amici che li avevano frequentemente visitati in carcere; ma il luogo dell'esecuzione era sorvegliato da folti distaccamenti di cavalleria e di fanteria, e la legge ha avuto esecuzione [5].
Inizialmente ho pensato che questa notizia potesse aver attratto l'attenzione di Gramsci (per analogia con i fatti di Torino) perché riferita a un episodio di ribellione delle classi subalterne conclusosi con una condanna penale. Episodio che forse è leggibile nel quadro della fase di irrequietezza sociale che fu caratterizzata, in Gran Bretagna, dalle proteste contro la legge sul grano del 1815, fase che sfociò nel massacro di Peterloo.
Tuttavia, non ho trovato alcun elemento che potesse suffragare questa ipotesi. Non è chiaro neanche se i quattro uomini giustiziati a Derby nel 1817 siano stati effettivamente condannati a morte per reati politici, o non piuttosto per reati comuni; in un elenco dei giustiziati nel carcere di Derby, compilato da Celia Renshaw, una storica locale, questi Booth, Brown, Jackson e King risultano essere stati condannati per aver appiccato il fuoco a dei covoni di paglia [6]. Inoltre è noto che Gramsci non amava gli atteggiamenti tribunizi e teatrali, né apprezzava particolarmente i gesti individuali di ribellione: lo si evince dal suo stesso comportamento di imputato durante il "processone" del 1928 [7], nonché dal suo commento, contenuto nei Quaderni del carcere, ad un libro che raccoglieva i resoconti di una serie di processi contro anarchici libertari [8]. Perciò mi sembra improbabile che, nel suo corsivo del 1918 che stiamo ora commentando, Gramsci possa aver preso ad esempio il comportamento di quattro condannati a morte per reati contro il patrimonio che, dal patibolo, incitano la folla alla rivolta.
C'è però un'altra notiziola, sempre nella prima pagina del "Journal des Débats" dell'8 novembre 1817, che potrebbe aver attirato l'attenzione di Gramsci. Si tratta di una corrispondenza da Losanna datata primo novembre:
Il Cantone Esterno di Appenzell ha da poco emesso una singolare sentenza contro un ragazzino accusato di alcuni piccoli furti. Lo hanno condannato a 50 fl. di ammenda e a trenta colpi di verga. Gli sarà inoltre assegnato un posto particolare in chiesa per un periodo di due anni: dovrà trovarsi colà per due volte ogni domenica, e sarà punito severamente in caso d'inosservanza [9].
In questa notizia di cronaca (un ragazzino condannato con sentenza penale ad andare a messa due volte la settimana) troviamo un esempio estremo e grottesco di quella perniciosa, pre-moderna confusione tra diritto e morale, che Gramsci stigmatizza nella sua polemica col giudice relatore della sentenza sui fatti di Torino. Perciò ritengo che sia stata questa la pezza giustificativa di quella parte dell'argomentazione gramsciana, che la censura ha cancellato lasciando nell'articolo un buco di venticinque righe.
Note
[1] Sempre secondo l'apparato critico dell'edizione citata, la
sentenza fu emessa dal Tribunale militare di Torino il 2 agosto 1918; il
testo della sentenza è reperibile in "Rivista storica del socialismo",
n. 2, 1960.
[2] A. Gramsci, Sotto la Mole, ed. cit., pp. 447-48. L'articolo è stato
poi raccolto nella più recente edizione degli scritti gramsciani
precarcerari: A. Gramsci, Il nostro Marx 1918-1919, a cura di Sergio
Caprioglio, Einaudi, Torino 1984, pp. 360-2. In Internet si trova qui: http://www.liberliber.it/mediateca/libri/g/gramsci/sotto_la_mole/pdf/sotto__p.pdf, p. 269.
[3] "Passare l'esatta commisurazione alla sua entità di una pena
contemplata nel codice" è frase di cui si capisce il senso, ma che
sembra guasta anche grammaticalmente. Penso che Gramsci abbia invece
scritto "fissare l'esatta commisurazione della sua entità ad una pena
contemplata nel codice".
[4] Cfr. Leonardo Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci
dal socialismo al comunismo (1914-1919), Carocci, Roma 2011, pp. 162-6.
[5] Quatre individus nommés Booth, Brown, Jackson et
King, antérieurement aux dernières assises de Derby, avoient été
condamnés à mort pour crime de rebellion. Amenés sur l'échafaud, ils ont
eu, même au moment de la mort, l'audace impie de haranguer la
multitude, et de l'engager à venir les délivrer. Cette multitude étoit
composée de leurs anciens amis qui les avoient fréquemment visités dans
leur prison; mais le lieu de l'exécution étoit gardé par de forts
détachements de cavalerie et d'infanterie, et la loi reçut son
exécution.
[7] Cfr. Giuseppe Fiori (a cura di), Antonio Gramsci: cronaca di un
verdetto annunciato, I Libri de "l'Unità", supplemento al numero del 4
aprile, Roma 1994.
[8] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi,
Torino 1975, pp. 6-7 e 1896-7.
[9] Les Rhodes extérieurs d'Appenzell viennent de rendre une
singulière sentence contre un enfant accusé de quelques petits vols. Ils
l'ont condamné à 50 fl. d'amende et à trente coups de bâtons. Il lui
sera d'ailleurs assigné une place particulière à l'église pendant deux
ans; il devra s'y trouver deux fois chaque dimanche sous des peines
séveres.
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