Quest'estate ho intrapreso un viaggio in automobile attraverso i classici della prosa italiana. Per non partire da troppo lontano, ho limitato l'arco temporale agli ultimi due secoli; sono entrato al casello dell'Ortis, ho proseguito per Manzoni, poi ho attraversato le Operette morali e lo Zibaldone e, già che c'ero, mi sono concesso una deviazione per i Canti e i Paralipomeni. Durante la sosta in autogrill, davanti a una piadina e a un quartino di Chianti, ho pensato a quanto ero fortunato per il fatto che né Carducci né Pascoli si fossero mai dedicati alla narrativa; poi ho imboccato con fiducia il rettilineo che conduce al grande De Roberto attraverso il grandissimo Verga.
Fin qui tutto bene. Ma già sapevo che, dopo la barriera in uscita dall'A-800, e prima di imboccare con decisione l'A-900, avrei dovuto attraversare un tratto di raccordo pericoloso e arduo.
Ecco che già si snoda sotto i miei occhi la temutissima tangenziale D'Annunzio, con le sue cinque uscite.
1. E' un classico. Può esservi capitato, per motivi di lavoro o di studio, di dover leggere parecchi testi italiani risalenti alla fine del diciannovesimo o all'inizio del ventesimo secolo. Non necessariamente testi letterari: anche articoli di giornale o saggistica. Vi sarete accorti di quanto spesso lo stile appare gonfio, ampolloso, enfatico. E' come se, in quel periodo, un'epidemia di cattiva retorica (il "dannunzianismo") si fosse abbattuta sulla prosa italiana. E però: quando un autore riesce a imprimere in modo così massiccio e durevole la propria impronta sulla lingua nella quale scrive, questo autore è ciò che si dice un classico. Vale a dire che D'Annunzio non può essere tralasciato, in quanto rappresenta una fase di evoluzione della lingua italiana.
"Ma, trapassando il simbolo materiale, ci abbandoniamo con ansia alla virtù evocatrice dei profondi accordi in cui il nostro spirito sembra oggi trovare il presentimento di non so qual sera grave di belle fatalità e d'oro autunnale su un porto quieto come un bacino d'olio odorifero ove una galera palpitante d'orifiamme entrerà con uno strano silenzio come una farfalla crepuscolare nel calice venato d'un gran fiore".
2. E' decadente. Mettiamo che un bel mattino vi svegliate e vi sentiate esteti. Ovviamente non lavorate, e non avete il problema della sussistenza materiale. Fra i moltissimi modi a vostra disposizione per iniziare la giornata (il sesso, l'equitazione, il gioco d'azzardo, le droghe, bighellonare per il centro cittadino, ecc.) scegliete di leggervi un buon libro. Siete snob, e quindi sdegnate l'idea di leggere una volgare traduzione. Siete pigro, e non vi va di approcciare Proust né Wilde in lingua originale. Siete italiano, e vi dovete accontentare di quello che passa il convento. E allora non c'è via di scampo. Alla richiesta "estetismo decadente", la letteratura italiana risponde con D'Annunzio. O cambiate arte (Puccini è una validissima alternativa), oppure vi tocca tirare giù dall'ultimo scaffale il poeta di Pescara.
"Ricordi la ventesima delle variazioni beethoveniane sul tema del Diabelli dedicate ad Antonia Brentano? - diceva Aldo, svegliando nella profondità della nera cassa quegli accordi in cui per una miracolosa trasfigurazione il tema principale è irriconoscibile. - Non sembra armonizzata su quel fondo ove la croce le scale i corpi i singhiozzi le grida gli aneliti la luce non penetrano? Ascolta; e guarda quell'azzurro opaco sordo eguale, senza raggio, senza nube, di là da cui spazia forse quella regione della vita ove una sola cosa importa".
3. E' un poeta. Nonostante tutto, in D'Annunzio c'è del bello. Egli si autodefinì "l'Imaginifico" (con la I maiuscola, e una emme sola). Infatti, la sua prosa è caratterizzata da una strabordante varietà di immagini, di similitudini e di metafore. In gran parte sono rumore di fondo e gratuito orpello kitsch. Ma, per un puro fatto statistico, ogni tanto qualcuna è giusta. In altre parole, D'Annunzio funziona un po' come quei comici che producono battute a raffica, velocissime: alla fine ridi, un po' per sfinimento e un po' perché fra le tante ce n'era una buona.
"E nella faccia e nella mano era tanta forza d'espressione e d'illuminazione, ch'elle parevano sorpassare la realtà e intagliarsi nel cielo stesso del fato, come quando il crinale delle Dolomiti solo arde nei crepuscoli inciso contro tutta l'ombra e ciascuno dei suoi rilievi s'addentra nell'anima di chi mira e vi s'eterna".
4. E' conseguente. Come si sa, l'opera di D'Annunzio ha anche una ben precisa connotazione politica. Non mi dilungo su questo aspetto, però voglio rilevare che, sotto questo punto di vista, moltissimi italiani sono dannunziani, senza saperlo o sapendolo. Non tanto, e non solo, per una questione di appartenenza a certi partiti o a certe ideologie; quanto per il fatto di condividere con D'Annunzio un determinato rapporto con il reale. Infatti, il tipico atteggiamento dannunziano nei confronti della realtà non consiste nel riconoscerla così com'è, né tanto meno nel cercare di cambiarla. Consiste nel mistificare, sempre e comunque, e con ammirevole pertinacia e coerenza, la realtà. Se D'Annunzio fosse un software, sarebbe una specie di Matrix che trasfigura esteticamente tutti gli oggetti dell'esperienza facendo apparire "bella" ogni cosa. Se D'Annunzio fosse un odierno manager della TV, la sua ambizione sarebbe quella d'ideare un palinsesto così avvincente da tenere tutti i telespettatori attaccati allo schermo ventiquattr'ore su ventiquattro, dimentichi della vita e desiderosi di sempre nuove illusioni. Se D'Annunzio fosse un politico... Ma lo fu, tra l'altro. E fece scuola, ed ebbe tanti seguaci. E molti ne avrebbe ancora oggi, se fosse vivo.
"Né soltanto verso quella moltitudine ma verso infinite moltitudini andò il suo pensiero; e le evocò addensate in profondi teatri, dominate da un'idea di verità e di bellezza, mute e intente dinanzi al grande arco scenico aperto su una meravigliosa trasfigurazione della vita, o frenetiche sotto il repentino splendore irradiato da una parola immortale. E il sogno d'un'arte più alta levandosi in lui anche una volta, gli dimostrò gli uomini novamente presi di reverenza verso i poeti come verso coloro i quali potevano soli interrompere per qualche attimo l'angoscia umana, placare la sete, largire l'oblio. E troppo gli parve lieve quella prova ch'egli compiva; poiché mosso dal soffio della folla il suo spirito si stimò capace di generare finzioni gigantesche".
5. E' morto. Alla fine questa è la cosa più importante. Dall'esperienza dannunziana la nostra letteratura uscì vaccinata: per un paio di generazioni gli scrittori sfuggirono la retorica e cercarono una lingua scabra ed essenziale.
"Io non comprendo perché oggi i poeti si sdegnino contro la volgarità dell'epoca presente e si rammarichino d'esser nati troppo tardi o troppo presto. Io penso che ogni uomo d'intelletto possa, oggi come sempre, nella vita creare la propria favola bella. Bisogna guardare nel turbinio confuso della vita con quello stesso spirito fantastico con cui i discepoli del Vinci erano dal maestro consigliati di guardare nelle macchie dei muri, nella cenere del fuoco, nei nuvoli, nei fanghi e in altri simili luoghi per trovarvi invenzioni mirabilissime e infinite cose".
Sì, certo.
E l'orifiamma e la ventesima variazione e l'arco scenico e le Dolomiti...
Le Dolomiti?
Mi sa tanto che ho sbagliato uscita.
Sto andando verso il Brennero.
Arrivederci, Italia!
[Già pubblicato su Evulon]
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