Torno a casa. Metto una pentola d'acqua sul fornello e lo accendo. Poi prendo un dischetto e lo metto nel lettore.
Beethoven, Sonata op. 106 nell'orchestrazione di Felix Weingartner. Royal Philharmonic Orchestra, diretta dallo stesso Weingartner. Incisione storica, del 1930. Riversata su CD, edizione economica.
Che idea bislacca, trascrivere l'Hammerklavier per orchestra. L'opera, così, non funziona. E' incongrua, fuori posto. O forse è l'arrangiamento che non va bene: tutto in legato! Come no: siccome al piano non si può fare e con l'orchestra sì, allora mettiamo il glissando un po' dovunque...
Non importa. L'op. 106 è bellissima anche così. Beethoven è l'unico musicista che riesce a commuovere anche nelle esecuzioni più impossibili, e nelle situazioni d'ascolto più precarie.
Audiocassette in edizioni da autogrill della Quinta o della Sonata al chiaro di luna ascoltate in auto, d'estate, andando verso la spiaggia, coi finestrini aperti e quasi tutta la musica che si perde nel rumore...
C'è qualcosa di disneyano, nell'orchestrazione anni '30 di Weingartner. Quando ho visto per la prima volta Fantasia? Non ricordo, ma dovevo avere quattro o cinque anni. A Milano. I miei mi portarono al cinema, sicuramente, e qualcosa deve essersi depositato profondamente nella mia memoria. La Sesta sinfonia mi sembra di conoscerla da sempre.
Questa, però, è preistoria. La storia dei miei ascolti musicali comincia invece a metà degli anni '80. Avevo (o meglio, i miei genitori avevano) un magnetofono da tavolo a cassette, di quelli che si usavano per registrare pro-memoria e appunti vocali. Io lo usavo per sentire musica. Le cassette le avevo comprate all'uscita da scuola, prima di prendere il treno che mi avrebbe ricondotto a casa.
Il corso principale della città dove frequentavo il liceo scientifico aveva due negozi di dischi. Quello della signora Esposito era il più fornito: aveva dei meravigliosi cataloghi delle principali case discografiche. I cataloghi, però, mi mettevano in imbarazzo. Avrei voluto consultarli per ore, ma non stava bene: a un certo punto bisognava scegliere e ordinare. E poi, la cassetta arrivava dopo settimane, e a quell'epoca ero molto impaziente.
Il negozio del signor Cavo (dischi ed elettrodomestici, nomen omen) era più piccolo, ma aveva la particolarità di essere praticamente sempre aperto. Arrivavi col treno la mattina presto e trovavi già la saracinesca alzata, oppure perdevi il primo treno del ritorno, e potevi comunque rifugiarti una mezz'oretta da Cavo a contemplare lo scaffale con le cassette, senza essere disturbato (era, e per quanto ne so è ancora, un uomo di una discrezione esemplare, cosa non frequente in provincia). Potevi stare lì davanti quanto volevi prima di scegliere cosa comprare, oppure anche uscire senza aver preso niente, con un semplice grazie e arrivederci.
Ma, quando avevo diecimila lire in tasca, mi piaceva sempre entrare da Cavo per poi uscirne con una cassetta di Mozart o di Beethoven ben sistemata in mezzo ai libri - che tenevo orgogliosamente legati con una cinta elastica, per distinguermi dai miei compagni che sfoggiavano zainetti Invicta dai quali, durante l'intervallo, tiravano fuori i loro dischi di musica pop.
Intanto l'acqua bolle. Mezzo cucchiaino di sale. Apro la dispensa: pennette rigate o spaghetti? Opto per gli spaghetti: cuociono prima.
"La città dove frequentavo il liceo". Ho già scritto il nome di questa città? No. Lo scrivo adesso: Locri. Provincia di Reggio Calabria.
Da una vita, la semplice domanda "Di dove sei?" mi obbliga a fornire spiegazioni complicate e, suppongo, noiose, e anche poco convincenti. Ai tempi del liceo la risposta era semplice: di Africo. Se l'interlocutore era discreto, bastava così. Altrimenti scattava l'altra domanda: "E perché parli con l'accento milanese?" - Sai, la mia famiglia abitava a Milano, poi ci siamo trasferiti in Calabria. "Ah, allora i tuoi sono milanesi". - Niente affatto, siamo calabresi da chissà quante generazioni; ma i miei erano emigrati a Milano alla fine degli anni '60. "E come mai siete tornati qui?" - Uffa...
Da quando sto al Nord, la spiegazione è diventata ancora più involuta e implausibile. Se ci penso, mi vedo in un commissariato di polizia, seduto davanti a una lampada da tavolo puntata addosso a me, mentre l'ispettore, nascosto in una minacciosa penombra, mi inquisisce. "Ricominciamo daccapo. Di dove sei?" - Di Vigevano. "Ma non parli con l'accento di Vigevano". - No, perché sono calabrese. "Ma sul documento c'è scritto che sei nato a Milano". - Sì, perché all'epoca i miei abitavano lì. "Ah. E adesso dove abitano?" - Ad Africo. "Prima hai detto a Bianco." - Sì, anagraficamente stanno a Bianco. Sono due paesi confinanti. In realtà casa dei miei è tra Africo e Bianco, sulla statale. Ma comunque è più vicina ad Africo che a Bianco, anche se, sulla carta, è nel territorio di Bianco. Però i miei sono di Africo. "Ricominciamo daccapo..."
Intanto l'op. 106 di Beethoven, trascritta da Weingartner, è finita. Devo cambiare il CD. Ho ancora una cinquantina di minuti prima di tornare in ufficio. Cosa metto?
Scelgo velocemente, prima che la pasta scuocia: Invenzioni a due e tre voci di J. S. Bach. Glenn Gould, al pianoforte.
Butto gli spaghetti nello scolapasta. Che senso ha suonare il piano facendo finta che sia un clavicembalo? Venticinque anni che ascolto Gould e me lo chiedo.
Dicembre millenovecentoottantotto. Pomeriggio. Devo studiare per l'interrogazione di matematica. Non ne ho proprio voglia. Slego il fardello dei libri di scuola e ne estraggo il mio acquisto di oggi. Una cassetta made in U.S.A., dall'elegantissima copertina nera bordata d'oro. Bach, Inventions and Sinfonias. Glenn Gould.
Metto la cassetta nel mangianastri. Una musica astratta, trasparente, cantabile. Sembra provenire dallo spazio siderale, eppure i contorni si distinguono con precisione. Una sensazione di freddo secco, fine e pungente.
Guardai fuori. Non potevo crederci: stava nevicando. La casa dei miei è sul mare; l'Aspromonte dista solo una cinquantina di chilometri, ma qui sulla costa l'inverno è mite, la neve è un evento che capita forse una volta ogni dieci anni. Capitò quella volta. Mi alzai dalla scrivania e andai alla finestra a vedere i cristalli che scendevano lentamente.
L'inverno è mite, sulla costa ionica della Calabria. La stagione peggiore è l'autunno. A fine ottobre le piogge arrivano improvvise, massicce e violente, e possono durare per settimane. Non c'è che da chiudersi in casa e aspettare che passino.
Ho sedici anni e sto correndo attraverso la piazza principale di Locri verso la stazione. Il cielo è nero, l'aria è elettrica e tra poco scoppierà un forte temporale. Stavolta ho perso troppo tempo dalla signora Esposito, non sapevo decidermi, alla fine ho comprato la Sesta sinfonia di Beethoven e i concerti K. 488 e K. 491 nell'interpretazione di Daniel Barenboim, ma ora rischio di perdere il treno. La Sesta un po' la conosco, è quella della pubblicità. Ma il Concerto in do minore. Chissà com'è. Mozart scrive raramente in minore. Ma quando lo fa, mette i brividi. Mi precipito con il cuore in gola, mentre le bobine sbattono ritmicamente contro l'involucro di plastica nascosto fra i libri.
"Secondo le testimonianze di molta gente che ha vissuto in prima persona quei tragici giorni dell'alluvione e attraverso dei libri pubblicati da alcuni scrittori del paese, il 15 ottobre 1951 rappresenta una data indimenticabile e storica per il popolo di Africo in quanto un evento imprevisto sconvolse l’esistenza di Africo e della sua frazione, Casalnuovo. Per quattro giorni consecutivi dal 15 al 18 ottobre 1951, una bufera di vento, pioggia e nevischio si abbatté ininterrottamente sui due paesi causando frane, crolli di abitazioni e la distruzione di intere colture. La gente, spaventata, si riversò in massa in chiesa, pregando Dio e il suo Santo protettore, San Leo. La catastrofe avvenne soprattutto giorno 17 con continue frane, smottamenti di terreno, pioggia battente e violenta".
"La mattina del 18 ottobre la gente ricorda un'aria rossastra su nel cielo che metteva paura solo ad osservarla. [...] Molti furono quelli che, sorpresi dal maltempo, non fecero in tempo a mettersi in salvo, perché la piena del fiume impedì loro la via del ritorno a casa. Alla fine i due paesi contarono i danni: i morti furono sei a Casalnuovo e tre ad Africo. Gran parte del bestiame fu trascinato dal fiume, le case furono per la maggior parte distrutte e sepolte, le colture non più esistenti perché trascinate dalla pioggia."
"La lenta organizzazione della vita civile e della lotta politica fu sconvolta dall'alluvione del 1951. Una frana spazzò via il paese. I morti furono pochi, ma Africo scomparve. La storia della ricostruzione è allucinante. Per tutto un decennio gli africoti cercarono il terreno per ricomporre la loro comunità. Si iniziò una lotta tra chi voleva tornare nel vecchio territorio, dove erano restate le misere proprietà, e quelli che cercavano una sistemazione nuova. La scelta di una soluzione divise i due campi, anche la sinistra. Alla fine prevalse la tesi, sostenuta da don Stilo e dalla DC, di costruire un nuovo comune in una località distante 50 chilometri dal vecchio paese. Per lunghi anni la maggioranza degli africoti visse in un campo profughi. All'inizio del 1960 era sorta Africo Nuovo".
Un bambino di nove anni. Una bambina di due anni. Che esperienza possono aver fatto della catastrofe, e poi della loro condizione di profughi? Come l'hanno vissuta? Che tracce ha lasciato su di loro?
I miei genitori mi hanno parlato pochissimo dell'alluvione e degli eventi successivi. Hanno sempre insistito affinché studiassi, hanno incoraggiato i miei interessi per la musica, la letteratura, le scienze. Mi hanno sostenuto fino al diploma, poi fino alla laurea. Ma sugli eventi del loro paese non mi hanno mai detto molto.
Mio padre non sopporta il vento. Se è notte, e fuori c'è vento, non riesce a dormire.
"Non si è mai capito - manca una documentazione e mancano anche testimonianze orali credibili - se fu la mafia calabrese a premere per ricostruire Africo nel territorio di Bianco, senza terra, senza delimitazione territoriale e stato giuridico (com'è rimasto fino al 1980), in una località dove i contadini poveri, la grande maggioranza degli abitanti, sarebbero stati privati di quei diritti civici - il legnatico, il seminativo, il pascolo - di cui godevano nel vecchio paese. Da una montagna aspra al mare. Un caso esemplare di perdita dell'identità individuale e collettiva: gli abitanti di Africo infatti non sono più pastori né contadini, odiano il mare e non sono diventati né pescatori né marinai".
Ho diciannove anni. Preparo l'esame di maturità ascoltando la Sinfonia Italiana di Mendelssohn e la Sinfonia Incompiuta di Schubert. L'incongruità della situazione mi è divenuta insopportabile: che senso ha vivere in Calabria stando sempre chiuso in casa, parlare con un ridicolo accento settentrionale e, in generale, far finta di abitare in Mitteleuropa? A questo punto, non è meglio emigrare? Spengo il registratore e accendo la radio. Trasmettono The End dei Doors. C'è l'anniversario della morte di Jim Morrison.
Alla maturità, filosofia non è uscita. Peccato. Mi sarebbe piaciuto portare Kant. Non capisco perché tutti dicono che è un pensatore difficile: a me sembra così naturale, così ovvio. Certo: lo spazio, il tempo, sono forme della nostra mente. Ma, in sé, non esistono affatto.
Spengo lo stereo, aziono la lavastoviglie. E' ora di tornare in ufficio.
(Racconto pubblicato anche su Evulon. Nota: tutti i paragrafi tra virgolette sono tratti dal sito Internet di un mio compaesano, http://www.giuseppemorabito.it tranne l'ultimo che è tratto da Corrado Stajano, L'Italia ferita. Storie di un popolo che vorrebbe vivere secondo le regole della democrazia, Cinemazero, Pordenone 2010, pag. 96).