Sul "Primo Amore" Antonio Moresco ha pubblicato una bella lettera aperta ad Alessandro Baricco, in risposta a un'intervista concessa da quest'ultimo al "Venerdì di Repubblica".
Baricco, parlando del suo ultimo romanzo, non si limita ad esporre la sua personale poetica di scrittore, ma pretende di far assurgere quest'ultima al livello di teoria generale della letteratura valida per tutti. Moresco rimprovera giustamente a Baricco l'arroganza di tale pretesa.
Baricco non è nuovo a questo genere di smargiassate, così le chiamava il mio professore di filosofia del liceo (si riferiva alle teorie pseudo-storiciste di Francis Fukuyama, ma la definizione è adatta anche a quelle di Baricco). Nel 1992 lo stesso Baricco pubblicò per l'editore Garzanti un testo teorico sulla musica moderna (oggi reperibile in edizione Feltrinelli) dove, con piglio zdanoviano, condannava tutta la musica "atonale" in quanto non adeguata ai gusti della "gente". Nel 2003, qui, pubblicai una recensione di questo libro. La ripropongo ora qui in calce, con minime variazioni. Non mi piace molto com'è scritta, però contiene un'idea che, dopo aver letto il fondamentale libro del collettivo Wu Ming sul New Italian Epic, mi è diventata più chiara: l'idea, cioè, che il "postmodernismo da quattro soldi" sia una delle forme più pervasive e insidiose in cui si presenta oggi l'ideologia dominante. Ecco la recensione.
Alessandro Baricco, L'anima di Hegel e le mucche del Wisconsin. Una riflessione su musica colta e modernità, Garzanti, Milano 1992, pp. 101.
Avvertenza per gli estimatori di Alessandro Baricco: la presente è una stroncatura.
1. Riassunto dei contenuti del libro
Nel primo capitolo, intitolato L'idea di musica colta, Baricco individua l'origine del concetto di musica colta nell'idealismo romantico dell'Ottocento, la cui figura principale, Beethoven, stabilisce il paradigma a cui tutti i successivi compositori, nonché gli interpreti e il pubblico, si attengono: "una musica impegnata, spirituale e difficile" (p. 19). Tale concetto è oggi, secondo Baricco, sopravvissuto a se stesso, dato che ne sono venuti meno i presupposti storici, ideologici e sociali ("qualcuno sa cosa significa spirito?", p. 20). Ma gli esecutori e i fruitori della musica colta si ostinano a riproporre questa concezione ormai superata, e a riproporre i capolavori del passato in forma mummificata e inerte, secondo un malinteso concetto di fedeltà al testo, fondamentalmente perché - sempre secondo Baricco - hanno "paura" della modernità.
Nel secondo capitolo, come alternativa alla prassi corrente, Baricco propone la "sua" idea di interpretazione. La musica "colta" del periodo classico si proponeva di organizzare il caos entro un preciso ordine formale; compito dell'interprete di oggi è, secondo Baricco, di far esplodere tale ordine per far sì che le "schegge" del materiale musicale si possano ricomporre secondo nuove geometrie provvisorie, momentanee, ogni volta diverse, secondo costellazioni di senso sempre rinnovate, piacevoli e sorprendenti.
Il terzo capitolo è dedicato alla musica atonale del Novecento. Baricco parte da un'audace constatazione: ma questa musica, dopo più di settant'anni, ancora non ha un suo pubblico! Gli ascoltatori, per quanto si sforzino, non la apprezzano e non la capiscono! Hanno torto loro? No, naturalmente: hanno invece avuto torto Schoenberg e i suoi successori (tutti quelli che hanno composto musica atonale, vale a dire i tre quarti dei compositori del Novecento da Berg a Webern fino alla scuola di Darmstadt e oltre).
Baricco spiega il perché: esistono "invalicabili limiti fisiologici" (p. 55) che impediscono all'orecchio umano di apprezzare la musica atonale. Infatti ogni brano musicale, continua Baricco, altro non è che un "meccanismo di piacere" (ibid.) basato su un gioco di previsione da parte dell'ascoltatore/risposta da parte della musica: se si cancella la logica tonale, sparisce l'orizzonte della previsione e si elimina il "piacere dell'ascolto" (p. 56).
La musica seriale è ormai superata, e anche qui Baricco non manca di dare la sua spiegazione sociologico-storica: l'atonalità di Schoenberg e seguaci nasce come espressionistico grido di orrore di fronte alla tragica realtà dei massacri e dei totalitarismi del Novecento. Ma nel secondo dopoguerra, "una volta sfumata quella follia" (p. 63) e venuti meno i conflitti ideologici e sociali che caratterizzarono la prima metà del secolo, anche tale giustificazione per l'atonalismo viene a mancare. Perciò non ci sono più motivi validi per i quali i compositori debbano ostinarsi a frustrare "le legittime aspettative del pubblico" (p. 65) continuando a proporre musica così inascoltabile, e perpetuando "lo strappo profondo e grottesco tra quella musica e la gente" (p. 66).
Occorre dunque richiamare i compositori "ai doveri della modernità" (p. 67), "ricreare una sintonia col sentire collettivo. Con una certezza: la modernità è innanzitutto uno spettacolo" (p. 73) e la gente vuole innanzitutto divertirsi, anche nelle sale da concerto: i musicisti devono dunque accettare "l'allegra realtà di un'umanità inconsapevolmente e sanamente drogata" (p. 70), di una modernità dove "la spettacolarità del reale e quella delle forme di rappresentazione si inseguono in un'escalation per la quale anche l'orribile diventa meraviglia" (ibid.).
Nell'ultimo capitolo del suo libro, Baricco propone ai compositori contemporanei due modelli da seguire: Puccini e Mahler. Secondo Baricco, questi due autori avrebbero accettato la concezione moderna di spettacolarità, senza temere di adottare un linguaggio musicale primitivo, né d'infarcire le loro opere di elementi volgari o di cattivo gusto, pur d'intercettare il bisogno di spettacolo dell'ascoltatore odierno, precorrendo così l'estetica del cinema.
2. Critica
Sui primi due capitoli non c'è molto da dire: si tratta di luoghi comuni che Baricco espone come se si trattasse di trovate sue; interpreti come Pierre Boulez (nella sua attività di direttore d'orchestra) e Maurizio Pollini adottano da sempre prassi esecutive antiformalistiche senza bisogno di attendere lezioncine da parte di Alessandro Baricco: di propriamente suo c'è solo un certo superficiale edonismo.
Circa i restanti capitoli del libro, premesso che reputo agghiacciante ognuna delle frasi o espressioni di Baricco che sopra ho citato tra virgolette (reazione molto soggettiva, lo ammetto), la prima osservazione critica da fare su questo testo è che Baricco propone un'estetica normativa, vale a dire un'estetica che pretende di prescrivere agli artisti come devono lavorare (non dovete più scrivere musica atonale, dovete farvi capire dalla "gente", ecc).
Ora, ogni estetica normativa è un'aberrazione, indipendentemente dal suo contenuto. Se poi si vuole valutare quest'ultimo, bisognerà osservare che Baricco si accosta ad Andrej Zdanov, il "teorico" sovietico del realismo socialista: anche lui pretendeva dai compositori una musica dal linguaggio semplice, tradizionale, accessibile alle grandi masse popolari. Zdanov avanzava tale pretesa in nome del superiore interesse del socialismo, Baricco in nome della "modernità" e della fine delle ideologie, ma il risultato non cambia. Baricco, nella sua irritante e dilettantesca superficialità, non sembra neanche rendersi conto del totalitarismo implicito nella pretesa che gli artisti debbano conformare la loro produzione ai gusti della "gente".
D'altra parte neppure si capisce bene quale pubblico Baricco abbia in mente: il pubblico che frequenta le sale da concerto è così esiguo che non vale neanche la pena che i musicisti si affannino per compiacerlo: e peggio per tale pubblico se non riesce ad apprezzare Anton Webern. Viceversa, il pubblico che non ha mai messo piede in un auditorium e non ascolta Schoenberg e Stockhausen, nella sua stragrande maggioranza non ascolta neppure Mahler e Puccini, ed evidentemente non per motivi ascrivibili al solo linguaggio musicale.
In ogni caso, dal fatto che la lettura di questo libro non mi ha impedito neppure per un minuto di continuare ad ascoltare il mio CD con i pezzi per pianoforte di Schoenberg, deduco che quella degli "invalicabili limiti fisiologici" è una colossale sciocchezza, con cui Baricco cerca malamente di giustificare la propria opposizione ideologica alla musica d'avanguardia.
La sua valenza ideologica è in realtà l'unico aspetto un poco interessante di questo libro. Esso, con la sua esaltazione del disimpegno, delle gioie del consumismo e della "gente" che vuole divertirsi, appare come un esempio tipico di quella versione euforico-ebetudinaria del postmoderno che ha furoreggiato nel nostro paese durante tutti gli anni '80: un'epoca nella quale a molti intellettuali non è parso vero di poter finalmente riproporre (nell'aggiornatissimo linguaggio filosofico post-strutturalista) l'antico, tradizionale qualunquismo italiano. Appare tristemente ironico che alcuni di quegli intellettuali si scaglino oggi dalle pagine dell' "Unità" o di "Repubblica" contro le impreviste (ma prevedibili) conseguenze politiche della loro stessa filosofia.
P.S. Ad un certo punto del suo testo, Baricco inserisce alcune oscure insinuazioni a proposito di presunte "coperture politiche" di cui gli artisti dell'avanguardia musicale avrebbero goduto nel nostro paese. Sorge allora la tentazione di leggere questo libro, il cui valore teorico-critico è nullo, in chiave direttamente pratica: forse Baricco si è proposto di approntare un "manifesto" per i musicisti della cosiddetta scuola neo-romantica?
Mi sono allora comprato un disco antologico di un esponente di questa corrente musicale, che ebbe anch'essa un effimero momento di notorietà nel corso degli anni '80: Marco Tutino, Operas, CD Aura Music AUR421-2, 2000, Euro 4,25. Si tratta di composizioni carine, indubbiamente orecchiabili, il cui linguaggio musicale si colloca fra le colonne sonore di Bernard Herrmann e i balletti di Aaron Copland, il tutto realizzato senza troppa fantasia e con circa trent'anni di ritardo.
Bene, ho fatto un piccolo esperimento. Un brano di questo CD di Marco Tutino l'ho fatto ascoltare ad un mio coinquilino che ascolta solo reggae ed hip-hop (e che, così facendo, qualche volta supera gli invalicabili limiti fisiologici delle mie capacità d'ascolto), e poi gli ho fatto sentire qualche minuto di Contrappunto dialettico alla mente di Luigi Nono (1968). Nessuno dei due brani gli è piaciuto, ma ha trovato di gran lunga più interessante quello di Nono.
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RispondiEliminaIneccepibile e tagliente. Bravissimo
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