Ad ogni modo fu sul sito commerciale che conobbi Giorgio Sollazzi. Anche lui scriveva recensioni. Con la prima, importante differenza che lui è musicista, e quindi sa di cosa scrive, e con una seconda differenza: le sue recensioni erano avvincenti, estrose, godibilissime, anche e soprattutto quando sembrava che non avessero nulla a che fare col brano musicale che - in teoria - ne costituiva l'oggetto. Le recensioni di Giorgio non parlavano precisamente né del brano musicale “in sé”, né della sua ricezione da parte dell'ascoltatore-recensore. Si situavano, piuttosto, in qualche punto lungo la relazione fra questi due elementi, come un acrobata in equilibrio su un filo, o come uno dei fuochi di due specchi parabolici contrapposti. Non per niente “mirrors” (con la m minuscola) era il nickname che Giorgio si era scelto.
A un certo punto Giorgio uscì dal sito e cancellò il suo account. Dev'essere per questo che, cercando ora qualcuna delle meravigliose recensioni di mirrors, non ne trovo nessuna. Qualche tempo dopo si iscrisse nuovamente con un altro nickname e cominciò a pubblicare recensioni di forma più tradizionale, ma sempre molto belle, come ad esempio questa, sulla settima di Beethoven.
L'interpretazione verbale di un brano musicale è sempre un grosso azzardo. "Scrivere di musica è come ballare di architettura", diceva Frank Zappa. Le descrizioni che amo di più sono quelle di musiche inesistenti, come la sonata di Vinteuil in Proust o le composizioni immaginate da Thomas Mann nel Doktor Faustus. Proust mescolava genialmente le carte, inventandosi una sonata per violino e pianoforte che prendeva un po' dalla Sonata in re minore di César Franck, un po' da un quintetto di Saint-Saëns, senza essere né l'una né l'altro; in piena coerenza, d'altronde, con la sua estetica, dove non esistono "descrizioni" "realistiche" del "mondo esterno". Quanto a Mann, Arnold Schönberg s'inalberò quando seppe che la sua musica aveva ispirato quella del romanzo, al punto da pretendere una smentita da parte dello scrittore. E dal suo punto di vista Schönberg aveva anche ragione, in quanto Mann interpretava la dodecafonia come un fenomeno di dissoluzione morale, che era quanto di più lontano dagli intenti del severo musicista.
Ma anche divagare è un'arte, che a me non riesce: ci provo inutilmente, per poi subito ricadere nel mio solito modo di scrivere pedestre e nozionistico. Dunque, meglio rimanere on topic e parlare di Giorgio Sollazzi. Ecco: quando lo conobbi, non attraversavo quello che si dice un buon periodo. Mi ero laureato, avevo fatto il servizio civile, abitavo a casa dei miei in provincia, lontanissimo dall'università e dai miei amici di laggiù. Gli altri miei amici, quelli del liceo, erano sparsi in giro per l'Italia. Facevo pratica in uno studio legale. Ero, in sostanza, disoccupato, e mi sentivo terribilmente solo e senza prospettive. L'amicizia epistolare con Giorgio mi aiutò a tenermi in piedi. Ci scambiavamo commenti e messaggi sul sito commerciale (che fungeva anche un po' da social network), email, ma anche lettere cartacee: ricordo un plico meraviglioso che egli mi spedì con un CD che aveva masterizzato per me. Dentro c'erano un brano di Stockhausen, Il canto sospeso di Nono, un coro dal Trovatore, e non ricordo cos'altro.
A quel tempo Internet non aveva ancora stravolto la distribuzione della musica. C'era Napster, ma con le connessioni lente di allora non è che si riuscisse a scaricare granché. Per ascoltare musica bisognava ancora affidarsi alla radio, oppure ordinare il disco al negozio e aspettare che arrivasse. C'era poi una circolazione semiclandestina di audiocassette duplicate artigianalmente, che passavano di mano in mano come samizdat. Tutta una dimensione romantica, di scoperta, che si è persa dal momento in cui è bastato digitare un nome su un motore di ricerca per avere subito a disposizione l'intera produzione di qualsiasi musicista antico o contemporaneo.
Poco tempo fa ho chiesto a Giorgio se, come musicista, non si sentisse stimolato da questa odierna vasta disponibilità di musiche, e come mai ciò non lo inducesse a scrivere in una tale, enorme varietà di stili e di linguaggi: oggi un brano dodecafonico, domani uno pop, dopodomani uno free jazz, e via dicendo. Non ricordo esattamente il tenore della mia domanda - che comunque era piuttosto stupida, si capisce. Ricordo invece perfettamente la replica di Giorgio: fare come gli suggerivo io - mi ha risposto - avrebbe forse aumentato il suo tasso di libertà ma avrebbe diminuito il tasso di scelta.
In uno dei suoi romanzi, Nicola Lagioia offre alcune riflessioni molto interessanti a proposito del ritrovare sui social network i propri amici di gioventù. Queste amicizie del mondo reale divenute poi virtuali - osserva Lagioia - hanno una strana consistenza umbratile. Simile a quella degli spiriti nell'undicesimo libro dell'Odissea (o nel sesto dell'Eneide), aggiungerei io. Colpa del mezzo, evidentemente, e non dell'amicizia in sé - ma questo è un altro discorso.
Conosco Giorgio da sedici anni e non ci siamo mai incontrati di persona: solo via Internet, e qualche volta per telefono. Però non ho mai avvertito come un limite la virtualità della nostra amicizia. Forse perché nel suo caso manca il confronto con l'immagine mnemonica della persona reale, o forse per il felice paradosso che Giorgio riesce a realizzare nelle sue comunicazioni virtuali, allo stesso tempo lievi e intense.
Sto pensando che “lieve” e “intenso” potrebbero essere i due primi aggettivi che mi vengono in mente ascoltando la musica di Giorgio. Mi rendo conto che come contributo critico è parecchio inadeguato, ma ho già detto che non sono del mestiere. Giorgio ha esposto la sua poetica (o almeno, una delle sue poetiche) in uno scritto che potete trovare qui.
In questo saggio, Giorgio prende le mosse dal personaggio di Amleto (con annesso spettro del re di Danimarca?) per proporre una sua complessa concezione della composizione, come “apparizione” o “evocazione” di “potenziali”.
Shakespeare era un altro interesse che ci univa quando scrivevamo sul sito commerciale. Giorgio ha molto riflettuto, e qualcosa ha anche scritto, sia in prosa sia in musica, sulla figura di Amleto.
Quanto a me, partendo dalla constatazione che su Internet in italiano c'era ancora poco materiale sull'argomento, mi ero messo in testa di compilare e mettere on line una "recensione" per ciascuno dei drammi del Bardo. Tanto ero sprovveduto, a quell'epoca.
Più tardi abbandonai l'insano progetto, assieme alle mie velleità di anglista, e praticamente smisi di leggere Shakespeare. Oggi amo recarmi, di quando in quando, a visitare l'abbazia cistercense di Morimondo. Questo non c'entra nulla con quanto ho detto finora. Però nell'abbazia c'è un bel coro ligneo di epoca rinascimentale.
Ogni volta che lo vedo recito mentalmente la prima quartina del Sonetto LXXIII.
La migliore traduzione italiana è quella di Ungaretti:
"Quel tempo in me vedere puoi dell'anno
Quando già niuna foglia, o rara gialla in sospeso, rimane
Ai rami che affrontando il freddo tremano,
Cori spogliati rovinati dove gli uccelli cantarono, dolci".
Di solito i commentatori sottolineano il senso di desolazione che promana da quei bare ruin'd choirs, vuoti, semidistrutti e muti. Sta di fatto che Shakespeare, mentre ce li descrive, riesce in qualche modo a farcene riascoltare il suono. Forse questa è una delle cose che il poeta vuole dirci: la memoria, aiutata dall'arte, può riuscire ad evocare la musica di un coro assente.