giovedì 22 marzo 2012

La Quinta sinfonia di Brahms

Vogliamo oggi parlare della meno eseguita fra le sinfonie di Brahms: la Sinfonia n. 5 in do maggiore, op. 123.

Questa sinfonia è il "canto del cigno" del grande musicista, che la terminò nel 1898, pochi mesi prima del suo definitivo crollo psichico.

Brahms visse ancora una decina d'anni chiuso nel manicomio di Amburgo, dove, secondo le relazioni cliniche e le testimonianze del personale ospedaliero, condusse una vita vegetativa, completamente immemore, punteggiata da intervalli di coscienza (ma non di lucidità), durante i quali il povero Brahms sosteneva di essere una taverniera; in tale sua immaginaria qualità di ostessa di una bettola di infimo ordine, Brahms interloquiva coi medici e gli infermieri, scambiandoli per avventori del suo locale. Lo si poteva allora udire in tutto il manicomio mentre, con voce stridula, urlava frasi del tipo: "Quante birre al tavolo sei?" - Tale scena penosa, su cui i biografi di Brahms hanno mantenuto, fino a tempi recenti, un imbarazzato silenzio, si ripeteva una o due volte la settimana.

Si direbbe che l'incombente follia abbia proiettato la sua oscura ombra anche sulla ricezione di quest'ultima opera brahmsiana, che già al suo apparire lasciò perplessi ascoltatori e critici, innanzitutto per la sua durata stranamente breve: la sinfonia dura circa venti o venticinque minuti, a seconda delle interpretazioni (diciotto minuti nella lettura di Toscanini, ventisette in quella di Klemperer; un'incisione dal vivo di Celibidache, con l'orchestra sinfonica della RAI di Napoli, arriva ai quaranta minuti, ma solo perché il direttore allunga fino all'inverosimile gli intervalli fra un movimento e l'altro). Decisamente poco per il pubblico dell'epoca, abituato al gigantismo formale.

Un altro motivo di stupore derivò poi dalla strumentazione, che comprende, oltre al solito organico orchestrale, anche una fisarmonica, un mandolino e un sassofono. Inoltre nell'ultimo movimento è introdotta una voce di basso.

Il primo movimento, Allegro amabile, in forma sonata, inizia con il primo tema, esposto dai soli archi. E' una melodia languida, per non dire sensuale, costruita sulle note Do - La - La - Mi bemolle - Do- Si. In tedesco, queste note si scrivono C - A- A- Es - C - H; si tratta perciò di un chiaro riferimento al nome di Clara Schumann, la musicista per la quale, com'è noto, Brahms nutrì a lungo una segreta e infelice passione. Dopo un ponte modulante, si passa al secondo tema, che è costituito, abbastanza sorprendentemente, dalla ben nota canzone goliardica italiana detta "delle osterie". Il tema viene ripetuto varie volte, con un crescendo rossiniano inconsueto in Brahms, passando da una sezione all'altra dell'orchestra, in modo sempre più insistente. Lo sviluppo è costituito da una ingegnosa combinazione contrappuntistica fra il primo tema e le ultime battute del secondo tema (quelle che, nel testo della canzone, corrispondono alle parole "Dammela a me, biondina, dammela a me, biondà"). La ripresa è assai regolare, ed è seguita da una coda in cui Brahms cita la melodia di un'altra canzone goliardica, Gaudeamus igitur, già da lui utilizzata nella sua Ouverture accademica, op. 80.

Il secondo movimento, Andante comodo, è in forma tripartita. Qui, dopo le stravaganze del primo tempo, ritroviamo con piacere il consueto Brahms di tanti suoi andanti sinfonici: nobile, compassato, un tantino soporifero. La parte centrale dell'Andante si distingue per il finissimo dialogo strumentale fra il sassofono e il mandolino, su una melodia che presenta sottili analogie strutturali con il tema dell'Andante del Trio op. 17 di Clara Schumann.

Non si discosta dal sostanziale classicismo dell'Andante il Minuetto con trio che costituisce il terzo movimento della sinfonia: anzi, questo Minuetto è così ostentatamente haydniano, così settecentesco in modo quasi iperrealistico, che nell'ascoltatore inizia a farsi strada il dubbio se Brahms stia facendo sul serio, e se, a questo punto, ci stia ancora con la testa.

Ogni dubbio viene meno con l'inizio del famigerato quarto movimento. Dapprima entra la fisarmonica solista, proponendo un Recitativo strumentale di sedici battute che non si sa veramente come definire. Dopodiché il basso, senza alcun accompagnamento strumentale, intona alcuni frammenti di Saffo, ordinati dallo stesso Brahms in una sequenza, di cui si ricorderà quarant'anni dopo il nostro Quasimodo nella sua traduzione dei lirici greci:

Tramontata è la luna
e le Pleiadi a mezzo della notte;
anche giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola.
Scuote l'anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce;
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele;
e soffro e desidero.


E' difficile ascoltare questo recitativo senza provare disagio: il basso, infatti, inizia nel proprio registro centrale, ma poi sale gradualmente, terminando su delle note che si trovano talmente oltre il limite della sua estensione, che finora nessun cantante è riuscito ad intonarle se non in falsetto. Ebbene sì: qui al compositore ha decisamente dato di volta il cervello.

A questo punto entra l'orchestra, attaccando l'Allegretto, in forma di rondò, su cui il basso canta un testo, elaborato dallo stesso Brahms, tratto dal Cantico di Re Salomone. La singolare difficoltà di questa parte vocale, caratterizzata da repentini salti di registro, costituisce certamente uno dei motivi per i quali la Sinfonia n. 5 di Brahms viene eseguita così raramente, ma non è l'unico. Soprattutto è sconcertante la disinvoltura con cui Brahms si appropria di intere sequenze tratte dalla Traviata, dalla Carmen, dal Tristano di Wagner e dalla Manon Lescaut di Puccini, senza neppure sottoporle al lavorìo dell'elaborazione tematica e contrappuntistica di cui è maestro. No, qui Brahms prende interi brani di queste opere e li schiaffa pari pari nel suo rondò, che si trasforma così in una sorta di pot-pourri da operetta.

La Sinfonia n. 5 termina con un altro sberleffo musicale, questa volta affidato alla melodia della canzone napoletana "Oi Marì, oi Marì / quanto suonno aggio perso pe' tte!", eseguita all'unisono dall'intera orchestra e dal basso, per chiudere con un accordo violentemente dissonante che usa tutte e dodici le note della scala cromatica, più alcuni quarti di tono.

Mentre, come si è detto, i contemporanei di Brahms non nascosero l'inquietudine e l'imbarazzo di fronte a questa sinfonia, la critica novecentesca appare molto divisa. Il critico Giorgio Lukács, in una delle sue rare incursioni in ambito musicale, definisce la Quinta Sinfonia di Brahms "uno dei documenti più impressionanti della decadenza artistica e morale della borghesia capitalistica nella sua fase imperialista"; giudizio sostanzialmente riecheggiato da Teodoro Adorno, il quale ebbe a parlare, a proposito di questa sinfonia, di "evidente involuzione reazionaria, basata sulla negazione astorica della funzione sociale della relazione armonica, nella misura in cui il contrappunto, materialisticamente e dialetticamente inteso, cede il passo al costrutto timbrico falsamente progressivo, di carattere apoditticamente neoclassico, orientato a destra, prematurato e antani". La sinfonia fu invece molto lodata da Stravinsky e, ai nostri giorni, da Pierre Boulez, che ne ha dato l'interpretazione forse più vibrante.

Significativa, a suo modo, fu la reazione di Glenn Gould, il quale, durante un'intervista radiofonica col fido Bruno Monsaingeon, da questi interrogato su cosa ne pensasse della Quinta sinfonia di Brahms, per tutta risposta cominciò a ridere, dapprima sommessamente e poi in modo sempre più convulso e irrefrenabile, al punto che l'intervista dovette essere interrotta.

Ma è tempo di passare alla conoscenza diretta di questa composizione così controversa. Ecco il link, con l'avvertenza che, su alcuni browser e con sistemi operativi non aggiornati, la pagina potrebbe anche non aprirsi. Comunque, buon ascolto.

(Già pubblicato su Evulon).

martedì 6 marzo 2012

Su "My Favorite Things" di John Coltrane

Il 16 novembre 1959 debuttava a Broadway The Sound of Music, di Richard Rodgers e Oscar Hammerstein, uno dei musical più popolari di tutti i tempi anche grazie alla versione cinematografica che ne fu tratta nel 1965 (regia di Robert Wise, protagonista Julie Andrews, la versione italiana porta il titolo Tutti insieme appassionatamente).

Una particolare canzone tratta da questo musical ha avuto fortuna immensa. Di My Favorite Things, infatti, si contano centinaia di cover; l'elenco preparato dai redattori di Radio Rai è lungo sedici pagine.

Qui mi occuperò della versione forse più celebre, quella incisa in studio da John Coltrane il 21 ottobre 1960. Per capire quest'ultima, però, è opportuno partire dalla versione originale di Richard Rodgers. In questo articolo mi avvarrò dell'analisi condotta dal massimo studioso di Coltrane, il musicologo Lewis Porter, nella sua fondamentale monografia (Blue Train. La vita e la musica di John Coltrane, traduzione di Adelaide Cioni, Minimum Fax, Roma 2006, pp. 277-80).

La canzone è musicalmente molto semplice. Si tratta di un valzer in mi minore di quattro strofe, A-A-A'-B. Le prime tre strofe hanno la stessa musica, salvo che nella terza strofa, A', dove ci sono otto battute in maggiore. La quarta strofa, B, usa una diversa melodia e finisce in sol maggiore.

Qui di seguito copio il testo della canzone, di Oscar Hammerstein, cui faccio seguire una traduzione, volutamente molto pedestre, che ho preparato grazie all'ausilio del traduttore automatico di Google:



(A) "Raindrops on roses and whiskers on kittens
Bright copper kettles and warm woolen mittens
Brown paper packages tied up with strings
These are a few of my favorite things

(A) Cream colored ponies and crisp apple streudels
Doorbells and sleigh bells and schnitzel with noodles
Wild geese that fly with the moon on their wings
These are a few of my favorite things

(A') Girls in white dresses with blue satin sashes
Snowflakes that stay on my nose and eyelashes
Silver white winters that melt into springs
These are a few of my favorite things

(B) When the dog bites
When the bee stings
When I'm feeling sad
I simply remember my favorite things
And then I don't feel so bad!"

"Gocce di pioggia su rose e baffi di gattini
Bollitori di rame luminosi e caldi guanti di lana
Pacchetti di carta marrone legati con corde
Queste sono alcune delle mie cose preferite

Pony color crema e croccanti struedel di mele
Campanelli e campanelli da slitta e schnitzel con tagliatelle
Le oche selvatiche che volano con la luna sulle ali
Queste sono alcune delle mie cose preferite

Ragazze in abiti bianchi con sciarpe di raso blu
Fiocchi di neve che rimangono sul mio naso e sulle ciglia
Inverni bianchi d'argento che si sciolgono in primavere
Queste sono alcune delle mie cose preferite

Quando il cane morde
Quando l'ape punge
Quando mi sento triste
Non ho che da ricordarmi delle mie cose preferite
E allora non mi sento così male!"

The Sound of Music è ambientato a Salisburgo, fra le due guerre. Richard Rodgers ha naturalmente cercato di tener conto della tradizione musicale austriaca: My Favorite Things, come detto, è un valzer; negli altri brani si sentono riferimenti allo jodler, al laendler, al canto gregoriano, ecc. In un numero c'è anche un singolare omaggio ad Haydn: la canzone So long, farewell è eseguita da un coro di bambini che, uno alla volta, abbandonano il proscenio, finché a cantare rimane una sola bambina, così come, nel finale della Sinfonia degli addii, tutti gli esecutori smettono uno alla volta di suonare facendo concludere la sinfonia da un solo violinista.

Come ci si potrebbe aspettare, il testo di My Favorite Things fa uso di un immaginario prettamente alpino, o comunque nordeuropeo: bollitori per il té, guanti di lana, slitte che corrono sulla neve... Se di questa canzone volessimo realizzare un video-clip animato, seguendo pedissequamente il testo, dovremmo adoperare in prevalenza le tinte chiare, e in particolare il colore bianco, la cui presenza, in corrispondenza della terza strofa (quella con le otto battute in maggiore), diventa quasi ossessiva: abiti bianchi, fiocchi di neve, inverni bianchi... (Nella versione cinematografica quest'aspetto "eurocentrico" della canzone è ancora più sottolineato dal forte accento british di Julie Andrews).

Molti si sono chiesti cosa potesse avere indotto un artista come John Coltrane, che da lì a poco sarebbe diventato un'icona della cultura afro-americana, a musicare una sua versione di questo brano, il quale inizialmente c'entrava così poco con il jazz.

Secondo Lewis Porter, è un errore "dare per scontato che Coltrane trovasse la canzone sciocca e che per questo volesse abbellirla". Al contrario, Coltrane ammirava sinceramente questa canzone e, nella sua versione, la trattò "con rispetto". Il "messaggio" della canzone, "che le cose buone ci aiutano a superare le cattive", è secondo Porter "del tutto sensato e prezioso - per nulla sciocco - è solo che utilizza esempi alla portata di un bambino, perché nel copione la canzone si rivolge a dei bambini".

Qui però l'ottimo Porter ha preso una cantonata. Nel film, è vero, Julie Andrews canta la canzone a dei bambini. Il film, però, è del 1965, quindi è posteriore all'incisione di John Coltrane, che a quell'epoca poteva conoscere solo la versione teatrale di questo musical; e, nella versione teatrale, la protagonista canta My Favorite Things in una delle scene iniziali, che si svolgono in un convento di suore, e non la canta ai bambini, bensì alla Madre Badessa del convento.

Sembra, in realtà, che Coltrane non fosse attratto tanto dal "messaggio" della canzone, quanto invece dalla sua manipolabilità sul piano strettamente musicale. Ecco come si espresse Coltrane in un'intervista: "Questo valzer è fantastico: se lo suoni lento, senti un elemento di gospel che non è per niente sgradevole; se lo suoni veloce, possiede altre innegabili qualità. E' molto interessante scoprire un terreno che si rinnova a seconda dell'impulso che gli dai".

Quindi, si direbbe che il valzer di Rodgers fosse per Coltrane quello che il valzer di Diabelli era stato per il Beethoven dell'op. 120: poco più che un pretesto, un canovaccio utile per imbastire una serie potenzialmente infinita di variazioni che poco o nulla hanno a che fare con il tema originale. E, in verità, Coltrane eseguì in concerto My Favorite Things moltissime volte (secondo Wikipedia, sono state documentate su nastro non meno di 45 esecuzioni), creandone versioni sempre più lontane dalla canzone originale, fino a renderla irriconoscibile.

La versione sull'album si compone di un'introduzione di quattro battute, suonata due volte; viene poi esposto un vamp (breve inciso ritmico, costantemente ripetuto, che è per il jazz quello che nel rock si chiama riff e nella musica barocca si chiama ostinato), cui fanno seguito un primo assolo di Coltrane, un altro assolo di McCoy Tyner al pianoforte, e un assolo finale ancora di Coltrane, per complessivi 14 minuti circa. Nel primo assolo Coltrane esegue le prime due strofe (A) in minore, poi c'è un interludio in maggiore, poi altre due strofe (A) in minore. Gli altri due assoli seguono lo stesso schema, salvo che per la parte finale dell'assolo conclusivo di Coltrane, di cui dirò fra poco.



La prima cosa che si nota all'ascolto è che Coltrane ha spostato molto lontano dall'Europa il baricentro etnico del brano. La ripetizione ossessiva, ipnotica, di un inciso ritmico in tempo dispari; la voce acuta dello strumento a fiato (un sax soprano, fino ad allora poco usato nel jazz); il clima di fissità tonale e il senso del tempo molto dilatato, sono tutti elementi che richiamano la musica orientale. (A me il brano fa venire in mente una danza sufi). Porter nota che Coltrane era appassionato di musica indiana, era un ammiratore di Ravi Shankar, ed era profondamente interessato alla musica folk e modale di tutto il mondo, nonché alle scale pentatoniche (pare che certe volte, nelle sue esercitazioni, eseguisse col sassofono determinate sequenze del Concerto per orchestra di Béla Bartók). Sempre secondo Porter, in My Favorite Things si possono anche scorgere influenze musicali provenienti dall'Africa occidentale.

La cosa per me più sorprendente è che, nella musica originale di questa canzone, Coltrane abbia sentito un "elemento gospel". Per quanto ascolto e riascolto la canzone di Rodgers e Hammerstein, devo confessare che questo elemento gospel non riesco assolutamente a percepirlo. Ma è significativo che, per Coltrane, la canzone avesse qualcosa a che fare con le radici stesse della musica nera americana. Questo forse ci aiuta a far luce su un'altra singolarità della versione di Coltrane.

Abbiamo detto che la versione coltraniana di My Favorite Things è basata sulla strofa A della musica originale. Che fine ha fatto la strofa B, quella il cui testo contiene, secondo Porter, il "messaggio" della canzone e che si conclude in modo maggiore?

Alla fine del suo assolo conclusivo, Coltrane esegue anche la strofa B, senza apportare particolari variazioni alla musica. Però la esegue in mi minore, dandole, secondo Porter, "un effetto più pensoso, riflessivo".

Il testo originale della strofa B fa riferimento ad api che pungono e a cani che mordono, per delineare scherzosamente una situazione da "giornata storta", in cui le cose, chissà perché, non vanno per il verso giusto. Ma questa situazione si supera (dice la canzone) richiamando alla mente le piccole cose belle della vita. Se si fa in questo modo, l'atteggiamento cambia e ci si accorge che non si sta poi così male. La canzone si chiude così, trionfalmente, in sol maggiore.

Qui, però, è meglio fare ricorso alla bella traduzione ritmica di Antonio Amurri (quella utilizzata nella versione italiana del film), che ha colto al meglio il senso di questa strofa:



"Se son triste, infelice, e non so il perché,
io penso alle cose che amo di più
e torna il seren per me!"

Immaginiamo ora di sentire queste parole sovrapposte al mi minore del sax di John Coltrane, nelle battute finali del suo secondo assolo (a partire dal minuto 12'33''). L'effetto è di un'ironia indefinibile, profonda, pungente, tristemente consapevole. Uno speciale tipo di sarcasmo, composto e controllatissimo, ma inequivocabile.

Per me (e sottolineo: per me) in questo minuto e dodici secondi di musica c'è l'essenza stessa del jazz. Ogni volta che l'ascolto, mi commuovo.

Provo a spiegarmi meglio.

Il cantante e chitarrista Huddie W. Leadbetter (1885-1949), uno fra i musicisti più influenti della musica nera americana del secolo ventesimo, tentò una volta di definire a parole quel particolare complesso psicologico che porta il nome di blues. Possiamo leggere le sue parole come una specie di negativo fotografico della canzone di Rodgers e Hammerstein:

"Quando la notte sei sdraiato nel letto, e ti giri da una parte e dall'altra senza riuscire a prendere sonno, non c'è niente da fare. I blues si sono impadroniti di te... Quando ti svegli al mattino, ti siedi sulla sponda del letto, e puoi avere vicino a te padre e madre, sorella e fratello, il tuo ragazzo o la tua ragazza, ma non hai voglia di parlargli... Non ti hanno fatto niente, e tu non hai fatto niente a loro, ma che cosa importa? I blues si sono impadroniti di te".

Così commenta Arrigo Polillo nel suo classico Jazz. La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana (Mondadori, Milano 2009, p. 43): "Avere i blues è qualcosa di diverso dall'essere triste dell'uomo bianco. E' essere afflitti da un tedio esistenziale, da una malinconia greve che non lascia spazio alle fantasticherie, vuol dire autocommiserazione, rassegnazione, vuol dire disperazione sorda, grigiore, miseria. E' una poesia fondata sulle cose di tutti i giorni, su personaggi familiari, visti in una luce realistica, con occhio disincantato. Non c'è, né ci vuol essere, nel blues, trasfigurazione lirica, che è un lusso da bianchi; non c'è dramma, perché il dramma è fatto di ombre ma anche di luci. C'è invece la consapevolezza di una tragedia in atto, che non finirà mai. Il blues singer non canta la vita, ma il non morire, parla sempre di ciò che non ha e che non avrà mai".

Ecco il senso del mi minore con cui si conclude My Favorite Things di John Coltrane. Non c'è consolazione, e non c'è neanche protesta. E' la constatazione oggettiva di una situazione fondamentalmente tragica. Il "messaggio" della canzone di Rodgers e Hammerstein è sovvertito. Vista in questa luce, non solo la canzone, ma la stessa cultura (musicale e non solo) cui essa fa riferimento, viene radicalmente messa in questione.

giovedì 1 marzo 2012

Sull'"Elogio dei riformisti" di Roberto Saviano

1. Affinità e divergenze fra Saviano e noi. Considero Gomorra uno fra i libri letterariamente più importanti di questi anni nonché fra i capolavori del giornalismo d'inchiesta italiano. Ammiro e rispetto Roberto Saviano, anche se a volte non sono stato d'accordo con lui su alcune delle sue prese di posizione (ad es. sulla politica dei governi israeliani, oppure sugli scontri di piazza che hanno contrassegnato l'ultima fase del governo Berlusconi).

Ho trovato molto superficiale e semplicistico l'articolo di Saviano uscito su "La Repubblica" del 28 febbraio, dedicato all'elogio del riformismo.

Prendendo spunto da un recente libro di Alessandro Orsini sulla storia della sinistra italiana, libro che contrappone Turati a Gramsci, Saviano traccia una riga sulla lavagna, mettendo da una parte i riformisti e dall'altra i comunisti. I primi sarebbero pacati, realisti, tolleranti e liberali, i secondi sarebbero fanatici, violenti, malati di dogmatismo e d'ideologia.

Scrive Saviano: "i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto rileggere le parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci definiva un avversario, non importa quale: 'La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato'. Invitava i suoi lettori a ricorrere alle parolacce e all'insulto personale contro gli avversari che si lamentavano delle offese ricevute [...]. Arrivò persino a tessere l'elogio del 'cazzotto in faccia' contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un 'programma politico' e non un episodio isolato".

Viceversa, sempre secondo Saviano:

"in quegli stessi anni Filippo Turati, dimenticato pensatore e leader del partito socialista, conduceva una tenacissima battaglia per educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di coniugare socialismo e liberalismo".


Questa contrapposizione fra estremisti e riformisti, dice Saviano, si protrae fino ad oggi:

"Naturalmente, oggi, nel Pd erede del Pci, non c'è più traccia di quel massimalismo verboso e violento, e anche il linguaggio della Sel di Vendola è molto meno acceso. Ma c'è invece, fuori dal Parlamento, una certa sinistra che vive di dogmi. Sono i sopravvissuti di un estremismo massimalista che sostiene di avere la verità unica tra le mani", sono quei "pacifisti talmente violenti da usare la pace come strumento di aggressione per chiunque la pensi diversamente". Eccetera.

Quindi tutto lineare, nello schema di Saviano. Tutto semplice. Riformisti, buoni, in parlamento; comunisti, fuori dal parlamento, cattivi. Chiaro, no?

E però, se si va a verificare nel dettaglio gli esempi storici addotti da Saviano, ecco che le cose si complicano.

2. Cosa c'era prima degli assorbenti. Vediamo ad esempio la prima frase "incriminata". Di un suo avversario politico ("non importa quale", dice Saviano), Gramsci scrisse: "La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato".

La similitudine usata da Gramsci, al nostro orecchio di contemporanei, suona senza dubbio molto sgradevole. Intollerabilmente sessista, fra l'altro. Proviamo però a collocarla nel suo contesto. La frase è tratta da un articolo di Gramsci, allora venticinquenne, pubblicato sull'edizione torinese dell'"Avanti!" il 19 aprile 1916. In quel periodo la redazione di Torino dell'"Avanti!", di cui Gramsci era giornalista, stava conducendo una campagna di stampa sugli sprechi e sulle ruberie di cui si erano resi responsabili i promotori dell'Esposizione Universale di Torino del 1911. Come spesso succede in Italia quando si tratta di "grandi opere", anche questa era stata accompagnata da malversazioni, che Gramsci e i giornalisti dell'"Avanti!" avevano puntualmente denunciato.

Fra i bersagli di questa campagna di stampa c'era il conte Delfino Orsi, che all'epoca faceva parte della direzione della "Gazzetta del Popolo", un giornale monarchico, filogovernativo e interventista. L'articolo di Gramsci del 19 aprile 1916 è appunto una risposta ad un altro giornalista che aveva accusato l'"Avanti!" di aver attaccato Delfino Orsi non per il ruolo di quest'ultimo nello scandalo dell'Esposizione Universale, bensì invece perché Orsi era "una delle più influenti figure dell'interventismo subalpino".

Teniamo sempre presente il contesto storico. In Italia, nel 1916, lo scontro politico fra governo e opposizione era polarizzato sul problema della guerra. Era soprattutto lo scontro fra interventisti e pacifisti. Era in corso la Prima guerra mondiale, un conflitto che oggi praticamente tutti gli storici valutano come un'orrenda ecatombe, una catastrofe che segnò l'inizio del declino della civiltà europea, e che, in Italia, aprì la via al fascismo. In Italia il bilancio della guerra fu di circa 680.000 morti e quasi 500.000 invalidi permanenti. Il Partito Socialista Italiano, nel quale all'epoca militavano sia Gramsci sia Turati, era su posizioni pacifiste, e si opponeva compattamente alla guerra. A favore della guerra erano invece i nazionalisti, i liberali e il Partito Socialista Riformista Italiano, composto perlopiù da riformisti, come Bonomi e Bissolati, che erano stati espulsi dal P.S.I. già nel 1912 per il loro appoggio alla guerra di Libia.

Tale era il contesto della polemica fra l'"Avanti!" di Gramsci da una parte, e la "Gazzetta del Popolo" di Delfino Orsi dall'altra.

Quando, nell'agosto 1917, a Torino la popolazione diede vita ad una rivolta spontanea contro la guerra e contro la mancanza di pane (rivolta che fu ovviamente repressa nel sangue, con circa 50 morti e 200 feriti fra gli operai e le loro famiglie), la "Gazzetta del Popolo" di Delfino Orsi fu tra gli organi di stampa che giustificarono la repressione.

Più tardi, coerentemente, Delfino Orsi fu deputato nel Parlamento fascista, ed era ancora tale quando morì nel 1929 (mentre Gramsci era in carcere). Il gerarca Federzoni, nel suo elogio funebre pronunciato alla Camera dei Deputati l'11 dicembre 1929, disse di Orsi fra l'altro: "egli poté rinverdire i fasti patriottici della Gazzetta del Popolo, levando ancora la gloriosa bandiera del Risorgimento per le nuove battaglie dell'intervento nella grande guerra, della difesa delle aspirazioni nazionali, della rivoluzione fascista".


Delfino Orsi era appunto l'uomo che Gramsci paragonò ad uno "straccio mestruato". Un epiteto certamente poco gentile. Ma possiamo veramente dire, con Saviano, che "non importa quale" individuo egli fosse, né in quale periodo storico fosse situata la polemica fra lui e Gramsci?

Che diremmo di un giornalista il quale scrivesse, di alcuni suoi concittadini (non importa quali, direbbe Saviano), che essi sono "vigliacchi, in realtà", un "manipolo di killer", "abbrutiti e strafatti", un "branco di assassini" che "vivono come bestie"? Sono insulti pesanti e hanno ben poco di mite e di liberale. Ma se collochiamo questi epiteti nel contesto dell'articolo da cui sono tratti, scopriamo che si riferiscono ad una banda di camorristi responsabili di svariati omicidi, e che l'autore del pezzo è Roberto Saviano ("la Repubblica", 22 settembre 2008). Dobbiamo condannare il giornalista per la sua eccessiva violenza verbale? O non dobbiamo piuttosto ritenere che l'indignazione di Saviano, seppure si esprima in termini poco urbani, sia alquanto giustificata dalle circostanze?

3. La nobile arte. Vediamo, ancora, un altro passo gramsciano cui si riferisce Roberto Saviano. Si tratta dell'articolo intitolato "Elogio del cazzotto", uscito sempre sull'"Avanti!" il 12 giugno 1916. L'episodio cui si riferiva Gramsci in questo articolo era il seguente. Dei deputati socialisti, come gesto dimostrativo, avevano lanciato nell'aula di Montecitorio alcune cartoline con l'effige di parlamentari russi che erano stati deportati in Siberia a causa della loro opposizione alla guerra (c'era ancora il regime assolutista dello zar, e la Russia era alleata in guerra con le potenze della Triplice Intesa, con l'Italia, e contro la Germania e l'Impero asburgico). Un deputato interventista, Giuseppe Bevione, in quell'occasione accusò i socialisti di essere al soldo del nemico. Ne nacque un tafferuglio, durante il quale il socialista Nino Mazzoni colpì Bevione con un pugno. Questo, nello specifico, fu il "cazzotto" cui si riferisce Gramscì nel suo articolo, scrivendo fra l'altro:

"Non siamo entusiastici ammiratori del diritto del pugno; eppure quei pugni vibrati robustamente sul ceffo di Bevione ci riempiono di giubilo e di ammirazione".

Anche qui: possiamo dire che sia davvero ininfluente collocare la citazione di Gramsci nel suo contesto?

4. Vota Antonio. Veniamo ora ad un'altra delle dicotomie che Roberto Saviano delinea nel suo pezzo: quella fra opposizione parlamentare Vs. opposizione extraparlamentare. La prima riformista e "buona", la seconda estremista e "cattiva". E confrontiamo questa dicotomia con un esempio storico.

Nel giugno 1924, dopo il rapimento di Giacomo Matteotti, i parlamentari dell'opposizione antifascista decisero di disertare le aule del Parlamento, dando così luogo a quella forma di protesta extraparlamentare che passò alla storia come "secessione dell'Aventino". Fra loro c'era Filippo Turati, assieme a tutti i socialisti riformisti. C'era anche la piccola pattuglia dei deputati comunisti, che però, nel novembre 1924, verificata l'inefficacia della protesta aventiniana, decisero di rientrare in Parlamento, dove rimasero a contrastare la maggioranza fascista, praticamente da soli, per altri due anni, fino a quando il partito comunista non fu messo fuori legge. (A che tipo di pacifica dialettica parlamentare fossero avvezzi i deputati fascisti lo si può vedere consultando la voce di Wikipedia dedicata a Francesco Misiano).

Quindi, ricapitolando. Nel 1925 abbiamo il socialista riformista Turati fuori dal parlamento. In parlamento c'è una maggioranza parlamentare "estremista" fascista e una minoranza comunista (parimenti "estremista" secondo Saviano) di cui Gramsci fa parte. Comunque si voglia giudicare la situazione, si tratta di un caso in cui la realtà storica si rivela più complessa dei rigidi schematismi delineati da Saviano.

5. Conclusione. Con tutto questo discorso non voglio dire, naturalmente, che la violenza verbale nella lotta politica va sempre bene, che è sempre giustificata. Sono d'accordo con Saviano nel condannare certe forme di settarismo inutile e controproducente (di cui è un esempio il giudizio su Turati espresso da un Togliatti al peggio del suo stalinismo, citato da Saviano nel suo articolo). Né intendo affrontare discorsi astratti sul punto se sia meglio la lotta extraparlamentare o quella parlamentare.

Dico che ogni situazione fa storia a sé, che occorre giudicare caso per caso, e che generalizzazioni astratte e astoriche, come quella proposta da Saviano nell'articolo in questione, non hanno alcun significato.